A Kiev riapre l’ambasciata italiana, Zazo: «Roma svolge un ruolo politico e l’Ucraina lo sta apprezzando»

di Lorenzo Cremonesi, inviato a Kiev

Riapre lunedì la sede italiana, nonostante ancora suonino le sirene degli allarmi. «Ora gestiremo gli aiuti umanitari e i rapporti con i 230 mila ucraini in Italia e 100 mila profughi», dice l’ambasciatore, appena tornato nella capitale ucraina

dal nostro inviato
KIEV — «Gli ucraini hanno molto apprezzato che siamo stati l’ultimo importante Paese europeo a evacuare l’ambasciata di Kiev in seguito all’invasione russa per spostarla a Leopoli subito dopo. E domani riapriremo ufficialmente la sede qui nella capitale, nonostante ancora suonino le sirene degli allarmi. In realtà, tranne una parentesi di poco più di 24 ore ai primi di marzo, l’Italia ha sempre mantenuto la sua rappresentanza diplomatica in Ucraina, fondamentale per aiutare i nostri connazionali e dare un segnale di solidarietà al governo Zelensky». Appena tornato nella capitale, l’ambasciatore Pier Francesco Zazo parla con il Corriere. Un diplomatico di lunga esperienza: 62 anni, due decadi fa lavorò per quattro anni e mezzo come consigliere commerciale alla sede di Mosca, parla correntemente russo, una qualità che gli è stata di grande aiuto quando un anno e tre mesi fa arrivò a Kiev. Ancora prima delle domande, lui inquadra subito il nocciolo del problema.

«Nonostante la guerra, questo Paese rimane profondamente connesso alla lingua e alla tradizione culturale russa. Grandi scrittori come Gogol e Bulgakov erano ucraini, lo stesso Zelensky parla meglio russo che ucraino. Ma il grande errore di Putin è stato confondere l’essere russofoni con i russofili. Soltanto due decadi fa poteva avere qualche ragione, però negli ultimi anni il clima è mutato: c’è stata la Rivoluzione arancione nel 2004, le rivolte di Maidan e quindi il trauma della guerra del Donbass nel 2014. Putin si è illuso, ha ignorato il profondo cambiamento generazionale: ormai qui solo gli anziani guardano con nostalgia all’Urss, tra i giovani prevale nettamente l’apertura all’Europa e in generale all’Occidente. E questa guerra ha rivoluzionato tutto: se si calcola che già prima dell’attacco del 24 febbraio solo il 9 per cento degli ucraini restava legato politicamente a Mosca, oggi forse meno del 5 per cento, difficile dirlo con precisione. Persino la parte della Chiesa ortodossa ucraina che ancora guardava al patriarcato di Mosca, anche dopo la scissione da quella di Kiev, adesso benedice le armi che sparano sui russi. Questo non è più un Paese di frontiera tra slavi ed europei, ma una realtà che guarda a Roma, Londra, New York e Parigi».

Quindi il Russkij Mir di Putin si è rivelato una chimera?
«Di più, ha avuto l’effetto boomerang totalmente opposto. Lo vedo ascoltando i media, seguendo i social, parlando con persone che conosco da molti anni. La guerra non ha fatto che rafforzare l’identità nazionale ucraina anche in luoghi come Odessa, Mariupol, Kharkiv e Kherson dove la cultura era completamente russa. Neppure più fanno la differenza tra regime e popolo russo. Qui la gente ormai parla di rashism (che sta per russi razzisti, ndr ), li definisce con disprezzo zombie accecati dai media asserviti alla dittatura, impauriti dalla polizia, primitivi antidemocratici che subiscono la narrativa del patriarca Cirillo sulla crociata contro le depravazioni sessuali occidentali: sono rotture radicali, identitarie, di figli e nipoti ucraini che non comunicano più con i genitori a Mosca o San Pietroburgo».

All’alba del 24 febbraio lei fu sorpreso dalle bombe?
«Già il 10 febbraio la nostra ambasciata aveva consigliato ai circa 2.000 italiani di partire. I diplomatici anglosassoni avevano messo in guardia sull’inevitabilità della guerra. Del resto, sin dall’ormai noto articolo pubblicato nel luglio scorso, Putin teorizzava la non legittimità di un’Ucraina indipendente e la necessità di tornare alle sfere di influenza stabilite a Yalta. Per lui denazificare questo Paese era sinonimo di deucrainizzazione. Tanti però non ci credevano, il 95 per cento degli italiani non si mosse. Così, noi la prima mattina di guerra venimmo letteralmente inondati di gente sotto shock che chiedeva aiuto, c’erano tanti bambini. Ma ci siamo ben organizzati anche con altre ambasciate e siamo riusciti a formare efficienti convogli di evacuazione. Soltanto circa 130 italiani hanno scelto di restare».

Il ministro degli Esteri Kuleba dice che hanno molto apprezzato le pressioni italiane affinché l’Ucraina divenga membro della Ue.
«Sì, ci sono molto grati. Noi adesso gestiremo gli aiuti umanitari, l’arrivo di volontari, faciliteremo i rapporti con gli oltre 230.000 ucraini in Italia e adesso anche i quasi 100.000 profughi».

E i nostri invii di armi, anche in quanto possibile Paese garante del processo di Pace?
«Non ne so molto, le armi in generale arrivano da altri alleati. Direi che gli ucraini apprezzano molto di più il nostro ruolo politico, la nostra condanna dell’invasione russa è stata subito netta, tanto che neppure mi hanno mai chiesto del noto incontro tra imprenditori italiani e Putin prima della guerra. Qui nei miei incontri vedo che plaudono agli sforzi di Draghi e Di Maio per cercare fonti energetiche in Medio Oriente alternative al gas russo, dicono che stiamo facendo molto meglio della Germania, che ancora percepiscono come anello debole del fronte europeo».

E il processo di pace?
«Purtroppo, in questa fase prevale la logica della forza. Putin non intende tornare allo status quo anteguerra a mani vuote, ha bisogno di un qualche successo, è lui che decide. Si parla di rischi di escalation ulteriore, persino di piccole atomiche tattiche, difficile prevedere, mentre continuano ad arrivare armi, ma noi italiani insistiamo a privilegiare il dialogo».

16 aprile 2022 (modifica il 16 aprile 2022 | 23:24)

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, 2022-04-16 21:32:00, Riapre lunedì la sede italiana, nonostante ancora suonino le sirene degli allarmi. «Ora gestiremo gli aiuti umanitari e i rapporti con i 230 mila ucraini in Italia e 100 mila profughi», dice l’ambasciatore, appena tornato nella capitale ucraina , Lorenzo Cremonesi, inviato a Kiev

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