Abramovich, la tradizione degli avvelenamenti russi in cinque punti

di Andrea Marinelli e Guido Olimpio

Le sostanze letali sono parte della lotta «coperta», in tempo di pace e in guerra. In attesa di conferme sul possibile avvelenamento della delegazione ucraina possiamo però segnalare alcuni punti

Le sostanze letali sono parte della lotta «coperta», in tempo di pace e in guerra. In attesa di conferme — o smentite — sul possibile avvelenamento della delegazione ucraina possiamo però segnalare alcuni punti.

Primo. Molti servizi segreti hanno usato veleni per eliminare gli avversari, e i russi hanno una tradizione di attacchi portati con sistemi «non ortodossi». L’intelligence aveva creato «Kamera», una sezione delle operazioni speciali con il compito di metterli a punto: una missione poi proseguita dal Kgb.

Secondo. Negli anni 50, un paio di nazionalisti di estrema destra ucraini, protagonisti di gesti di resistenza anti-sovietica, vennero eliminati da Mosca ricorrendo a questi metodi. Efficaci, «silenziosi», manipolabili. La storia è proseguita per decenni. Ricordiamo solo alcune storie: l’ex agente Litvinenko assassinato con il polonio; il politico ucraino Viktor Yuschchenko intossicato con la diossina; l’attentato per far fuori Sergei Skripal sempre in Gran Bretagna; l’episodio di un trafficante d’armi bulgaro (vicenda rimasta sospesa); quindi il caso dell’oppositore di Putin, Alexei Navalny. Prima ancora, in piena guerra fredda, l’agguato degli 007 bulgari che liquidarono l’esule Georgi Markov con una micro-pallina alla ricina sparata da un ombrello modificato in una via di Londra.

Terzo. L’esperto Andrei Soldatov ha spiegato perché i russi «amano» questa tecnica. Non solo serve per spazzare via il target, ma la sua agonia avviene sotto gli occhi dei familiari: accresce dunque l’impatto, la sofferenza, il terrore. È un messaggio di deterrenza, rivolto anche ad altri possibili avversari. A volte, per creare una cortina fumogena, sostengono che la vittima in realtà non è stata contaminata, i suoi problemi deriverebbero invece da malattie, medicine, droghe, cibo avariato. Infatti spesso si parla di «sospetto di avvelenamento». È anche possibile negare e dirottare la responsabilità verso colpevoli diversi. La regola si applica a tutti. Può anche diventare strumento di provocazioni da parte di forze straniere o di nemici interni in una faida di potere politica, tra apparati.

Quarto. Il Mossad israeliano — secondo lo scrittore Ronen Bergman — definisce questo modus operandi «la pozione di Dio», una soluzione che, in teoria, non deve lasciare traccia. Così ha fatto fuori nel 2010 a Dubai un alto dirigente di Hamas impegnato nell’approvvigionamento di armi. Nel 1997 aveva cercato di avvelenare ad Amman Khaled Meshal, sempre di Hamas. Operazione fallita, trasformatasi in un fiasco diplomatico clamoroso: Gerusalemme fu costretta a fornire un antidoto e a liberare il padre storico del movimento integralista, lo sceicco Yassin. Il regime nord coreano ha invece organizzato la trappola con il nervino contro il fratellastro di Kim all’aeroporto di Kuala Lumpur. Delitto impunito, dunque missione «favorevole» per il dittatore. La Cia — secondo molte ricostruzioni — aveva pensato di sopprimere Fidel Castro ricorrendo a un sigaro avvelenato con tossina botulinica.

Quinto. Esistono — come per armi comuni — gli effetti collaterali. Dipende dalle circostanze e dalle capacità del killer: c’è sempre il rischio di contaminare degli innocenti o dei testimoni.

28 marzo 2022 (modifica il 28 marzo 2022 | 21:37)

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