Alzheimer, approvato negli Usa un nuovo farmaco che rallenta il declino cognitivo: funziona? È sicuro?

Alzheimer, approvato negli Usa un nuovo farmaco che rallenta il declino cognitivo: ma funziona davvero? Ed sicuro?

di Cristina Marrone

Leqembi, un anticorpo monoclonale, riceve l’approvazione accelerata della Fda: riduce le placche amiloidi nel cervello, ma solleva dubbi per gli importanti effetti collaterali. L’esperto: I benefici clinici sono modesti

La Fda (food and drug administration) statunitense ha concesso l’approvazione accelerata per un nuovo farmaco contro l’Alzheimer, il Leqembi (lecanemab-irmb).

Il farmaco, un anticorpo monoclonale, promette di rallentare l’avanzamento della malattia di Alzheimer se assunto nella fase precoce, quando cio la malattia si manifesta ancora in modo lieve.

I dati dello studio di fase 3 (anticipati a settembre con un comunicato stampa delle due aziende che lo hanno sviluppato, Eisai e Biogen, che peraltro aveva fatto impennare le loro azioni) erano molto attesi e sono da poco stati pubblicati sul New England Journal of Medicine da un gruppo di scienziati dell’Universit di Yale.

I risultati di questi studi, secondo il comunicato della Fda, supportano la decisione di concedere l’approvazione accelerata.

Secondo gli autori del lavoro, per, il lecanemab stato associato a un minor declino clinico delle capacit cognitive e funzionali rispetto al placebo, ma sono stati registrati effetti avversi e saranno necessari studi pi lunghi per determinare l’efficacia e la sicurezza del farmaco.

Il farmaco, ha dichiarato Eisai, sar lanciato al costo annuale di 26.500 dollari.

Lo studio

Il farmaco, somministrato per infusione ogni due settimane, stato sperimentato per 18 mesi su 1.795 adulti tra i 50 e i 90 anni colpiti da un deterioramento cognitivo lieve: a 900 volontari stato somministrato lecanemab, all’altra met un placebo (sostanza senza principi attivi).

I dati del test evidenziano che i pazienti che avevano ricevuto il lecanemab hanno poi fatto registrare un declino cognitivo del 27% pi lento rispetto ai pazienti trattati con placebo. Su una scala di valutazione della demenza, che valuta le persone da 0 a 18 sulla memoria, sulla risoluzione dei problemi e su altri compiti, i pazienti trattati con il farmaco hanno ottenuto per solo 0,45 punti in meno (minor progressione).

Nel dettaglio all’inizio dello studio entrambi i gruppi avevano una valutazione di demenza clinica con punteggio 3,2, coerente con l’Alzheimer precoce. Dopo 18 mesi il punteggio aumentato di 1,21 punti nel gruppo lecanemab e di 1,66 nel gruppo placebo. Il declino cognitivo si registrato in entrambi i gruppi, ma stato pi lento tra chi ha assunto lecanemab.

Gli entusiasmi e la cautela

la prima volta che in una sperimentazione clinica con un farmaco destinato all’Alzheimer viene registrato un rallentamento del declino cognitivo.

Per gli autori, guidati da Christopher van Dyck, direttore del Yale Alzheimer’s Disease Research Center, questo risultato potrebbe significare mesi in pi per riconoscere coniugi, figli e nipoti, ritardando il declino cognitivo e funzionale, proprio come succede con i trattamenti che prolungano la vita di coloro che sono colpiti da malattie terminali.

Tuttavia tra la comunit scientifica c’ molta cautela perch questa riduzione poco marcata e non effettivamente chiaro se abbia risvolti quotidiani che possano davvero essere notati dai pazienti e dai loro familiari.

Il risultato certamente statisticamente significativo a favore del farmaco ma di scarsa rilevanza dal punto di vista clinico e potrebbe non significare molto per i pazienti spostare il punteggio da un 3,2 di partenza a un 4,4 con il farmaco e un 4,8 con placebo, tenuto conto anche del numero enorme di pazienti coinvolto, del periodo abbastanza lungo dello studio, un anno e mezzo, e degli importanti effetti collaterali rileva il professor Alberto Albanese, responsabile dell’Unit di Neurologia all’istituto Humanitas di Milano e professore di Neurologia all’Universit Cattolica di Milano.

Lo studio ben fatto ed incoraggiante – commenta

Alfredo Berardelli, professore di neurologia all’universit La Sapienza di Roma e presidente della Societ Italiana di Neurologia – e anche se non offre un dato risolutivo e va preso con la giusta prudenza lo stimolo giusto che serve per proseguire nella ricerca: nella scienza gli avanzamenti si fanno cos, a piccoli passi.

Le placche amiloidi

Il farmaco prende di mira l’amiloide , una proteina che si accumula nel cervello formando le tipiche placche, segno distintivo della malattia degenerativa. In un numero pi ristretto di pazienti (688) stato misurato il carico di placche amiloidi nel cervello dei volontari grazie a tecniche di imaging e si vista un’importante riduzione dell’amiloide tra chi stato trattato con lecanemab.

All’inizio dello studio, il livello medio di amiloide dei partecipanti era di 77,92 centiloidi nel gruppo lecanemab e di 75,03 centiloidi nel gruppo placebo. Dopo 18 mesi il livello medio di amiloide sceso di 55,48 centiloidi nel gruppo lecanemab ed salito di 3,64 centiloidi nel gruppo placebo. Dimostrare che con una terapia si pu contrastare l’accumulo di sostanze proteiche in teoria un risultato importante. I precedenti studi avevano solo fatto vedere che con anticorpi monoclonali si rallentava la formazione di placche sottolinea Alfredo Berardelli. Colpisce che ci sia stata una riduzione cos importante di placche amiloidi – aggiunge Alberto Albanese – ma la terapia avrebbe dovuto essere “spazzina”, e portare via tutte le placche amiloidi che invece evidentemente continuano a formarsi, seppur pi lentamente e con risvolti clinici ancora da approfondire.

Il timore di effetti avversi

Dal momento che dal punto di vista clinico le differenze rispetto al placebo non appaiano cos significative molti esperti si stanno chiedendo se valga la pena offrire trattamenti di questo tipo, molto costosi e con importanti effetti avversi come edemi cerebrali (13% dei pazienti contro il 2% di chi ha assunto placebo) e emorragie cerebrali (17% dei pazienti rispetto al 9% di chi ha assunto il placebo).

Circa il 6,9% dei partecipanti allo studio nel gruppo lecanemab ha interrotto la sperimentazione a causa di eventi avversi. Lo studio non ha riportato una diversa incidenza di decessi: sei tra gli 898 pazienti trattati con lecanemab e sette tra gli 897 pazienti trattati con placebo. Gli autori hanno scritto che nessun decesso stato considerato correlato al lecanemab e che in nessun caso si verificato edema o sanguinamento cerebrale.

Tuttavia negli ultimi mesi ha fatto discutere la morte di due pazienti per edema ed emorragia cerebrale avvenuti dopo i 18 mesi di sperimentazione clinica (motivo per cui non sono stati inseriti nel report da poco pubblicato). Non noto se i due pazienti deceduti avessero assunto il farmaco o il placebo, tuttavia tutti i partecipanti al termine dei 18 mesi di osservazione hanno scelto di assumere il farmaco e partecipare in modo attivo alla sperimentazione che proseguir almeno altri cinque anni. Una paziente era una donna di 65 anni che aveva subito un ictus trattato con anticoagulanti, prima di morire per una emorragia celebrale. Un neuropatologo che ha condotto un’autopsia su richiesta del marito della donna ha riferito alla rivista STAT che il lecanemab probabilmente aveva indebolito i suoi vasi sanguigni rendendoli vulnerabili. Il secondo paziente deceduto era un ottantenne che stava assumendo un anticoagulante per un problema cardiaco e poco prima di morire aveva avuto un’ischemia ed era caduto pi volte.

In un comunicato stampa Eisai, citando la storia clinica dei due pazienti ha concluso, che le due morti non potevano essere collegate all’assunzione di lecanemab, sollevando per numerose perplessit da parte degli esperti. Nel mondo reale probabile che i pazienti soffrano di pi malattie (oltre che di Alzheimer) e che debbano assumere fluidificanti per il sangue, per questo preoccupano gli effetti avversi. La domanda da porsi se valga la pena, facendo un’attenta analisi su costi e benefici, offrire questo farmaco ai pazienti. Su questo punto lo studio non fa affermazioni , gli autori concludono che serviranno altre indagini, ma uno studio che ha coinvolto quasi 1800 persone gi davvero molto ampio riflette Albanese

Il progresso biologico e le difficolt sui benefici clinici

Come spesso accade nella ricerca sulle malattie neurodegenerative, in ambito biologico si vedono importanti risultati, che per non si traducono ancora in benefici clinici: Si fa sempre pi fatica – conclude il professor Albanese – a declinare queste scoperte in terapie efficaci, che diano risultati tangibili per i pazienti. Sta emergendo in modo sempre pi chiaro uno iato tra gli aspetti biologici e quelli clinici per le malattie neurologiche. Negli studi, come successo in quest’ultimo sul lacanemab, vediamo spesso che i meccanismi biologici migliorano altrettanto, si riducono gli “indicatori di degenerazione”, ma poi i pazienti clinicamente non migliorano, e questo molto frustrante. Siamo in questa fase transitoria della ricerca, ma non una brutta notizia. Arrivare qui un importante passo in avanti se pensiamo che 5 anni fa non avevamo alcun risultato o effetti modestissimi. Questa ricerca rappresenta uno step che non va sottovalutato.

6 gennaio 2023 (modifica il 6 gennaio 2023 | 21:41)

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