Ansia, noia, panico, disturbi alimentari, ritiro sociale. Docenti, vi hanno formato per affrontare tutto ciò? Siete preparati emotivamente e professionalmente? INTERVISTA a Gaetano Cotena

“Ansia, gioia, vitalità, noia, aggressività, intimità”. Ma anche “attacchi di panico, disturbi alimentari, ritiro sociale, depressione, passività”. La formazione attualmente offerta ai docenti nei percorsi di abilitazione e nelle università per i neoimmessi in ruolo è in grado di fornire agli insegnanti gli strumenti necessari per gestire tutto questo?

Secondo il professor Gaetano Cotena, psicoterapeuta e docente di scienze umane “l’insegnante incontra a scuola tutte le sfumature emotive e sintomatologiche con cui è chiamato a stare ogni giorno in classe senza una adeguata preparazione psicologica, emotiva e relazionale”. Nel frattempo, prosegue Cotena, “sta diventando urgente la situazione psicologica dei bambini e degli adolescenti di fronte ai quali spesso trovo nelle scuole vissuti di impotenza da parte dei docenti perché si trovano a dover affrontare alcune situazioni alle quali il mondo dell’università e dei diversi percorsi di abilitazione attualmente non li prepara”.

Cotena si occupa di formazione emotiva e relazionale per i docenti di ogni ordine e grado di scuola, ed è autore del libro “Quello che gli studenti non dicono”, UTET Università, 2023, uscito proprio questa settimana in libreria. Nel 2021 aveva pubblicato, sempre per UTET, il volume “Insegnare senza farsi male”. Quali elementi di continuità e quali le differenze tra i due libri? “In “Quello che gli studenti non dicono”, la cui prefazione è firmata da Laura Parolin, Presidente dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia, risponde l’autore, “approfondisco le conoscenze cliniche, gli aspetti intrapsichici che sono tipici di una dimensione clinica ma che reputo ormai necessarie per i docenti, pur mantenendo ben distinte, come specifico nel libro, la dimensione educativa da quella della cura. La continuità tra i due libri “sta invece negli spunti di consapevolezza che propongo ai docenti in entrambi i libri. Tra gli altri, in “Quello che gli studenti non dicono” propongo per esempio esercizi di consapevolezza sul proprio rapporto con la vergogna e con l’umiliazione, affinché le esperienze soggettive e passate del docente non interferiscano in modo inconsapevole con il suo modo di educare e, anche, con il proprio benessere in classe”.

L’intenzione di Cotena è dunque quella di fornire ai docenti, con il libro appena pubblicato, conoscenze e strumenti tratti dalla pratica clinica di psicoterapeuta che consentano loro di stare – non di curare, precisa l’autore – con tutto il continuum di emotività che caratterizza bambini e adolescenti. Stare, dunque. Ma come stare in classe tutti i giorni con questi bisogni? “Partendo dalle parole degli alunni – spiega Cotena – il libro fornisce strumenti psicologici emotivi e relazionali tratti dalla psicologia, dalla psicoterapia e dalle neuroscienze per permettere ai docenti di ogni ordine e grado di scuola di costruire un clima di intimità emotiva in classe, necessario per educare all’autocontrollo, per nominare l’emotività, per ridurre lo stress e per favorire le dinamiche di apprendimento”.

Professor Gaetano Cotena, come nascono l’idea e l’urgenza di scrivere questo libro?

“Ho deciso di scrivere questo libro perché le conoscenze e le competenze psicologiche concrete vanno diffuse. La formazione attualmente offerta ai docenti nei percorsi di abilitazione e nelle università per i neoimmessi in ruolo è ancora troppo legata alle teorie”.

Come mai la formazione universitaria fornita ai docenti della scuola è ancora così teorica, secondo lei?

“Il problema, visibile a tutti, è che chi fa formazione ai docenti delle scuole di ogni ordine e grado, spesso, anche se non sempre, non ha mai messo piede in una classe e non conosce dal di dentro il mondo della scuola, avendo frequentato solo quello universitario. Se escludiamo la formazione sulle metodologie didattiche, i percorsi di abilitazione e i CFU per gli insegnanti neoimmessi sono erogati prevalentemente da docenti universitari di pedagogia e psicologia. Molto spesso però, non sempre naturalmente, i primi parlano di pedagogia senza aver mai sperimentato la relazione educativa”.

E questo perché succede?

“Perché il docente universitario non ha una relazione educativa con i suoi studenti e anzi spesso non ha alcun tipo di relazione o possibilità di confronto con loro fino alla tesi. E i docenti di psicologia proiettano in aula slides su slides, ma parlano spesso di teorie psicologiche senza aver mai visto un paziente in vita loro e senza avere in possesso strumenti relazionali e di gestione dell’emotività da poter trasmettere ai docenti, futuri o attuali, del mondo della scuola. Tutto questo produce uno scollamento tra le richieste che vengono fatte attualmente ai docenti – di trasmettere conoscenze, ma anche di educare all’autocontrollo, alla gestione adeguata dell’emotività, alla esternazione adeguata dei propri bisogni, alla collaborazione e all’incontro con culture diverse dalla propria – e l’attuale sistema di formazione e selezione”.

In un capitolo del suo libro lei propone una revisione del processo selettivo dei docenti. Vuole spiegare di che cosa si tratta e come dovrebbe avvenire?

“Sono gli studenti, anche nel libro, che chiedono che il docente venga immesso in ruolo dopo aver sostenuto anche un colloquio psicologico e una prova sul campo che valuti le proprie capacità relazionali e di gestione della propria emotività. L’educazione si basa su processi di identificazione – io faccio come fai tu, apprendo da te modi e atteggiamenti che diventeranno i miei – che durano tutta la vita, e il comportamento del docente è il più potente mezzo di educazione a disposizione. E allora perché il docente viene selezionato ancora solo su quanto conosce la propria disciplina e le metodologie didattiche ed informatiche per trasmetterla? Non si può parlare di benessere emotivo a scuola se prima non si dotano i docenti di strumenti per poter stare, non per curare, con tutte le sfumature emotive, e a volte sintomatologiche, che il docente incontra ogni giorno in classe. L’attenzione alle competenze relazionali ed emotive deve riguardare, nel processo selettivo e nella formazione, anche i dirigenti scolastici – attualmente selezionati prevalentemente sulla base delle conoscenze legislative e amministrative – che possono in alcuni casi, con le loro scelte burocratiche e organizzative, inficiare il benessere di una intera comunità scolastica”.

Quali sono le sfumature emotive che il docente incontra ogni giorno in classe e a cui il suo libro fa riferimento?

“Il docente incontra in classe ogni giorno tutto il continuum di emotività che va dal benessere al malessere psicologico e alla sintomatologia psichica: ansia, aggressività, iperattività, ma anche condotte antisociali, ritiro, disturbi del comportamento alimentare, autolesionismo, disturbi ossessivo-compulsivi, attacchi di panico. Il problema del sintomo psicologico, è che oltre ad essere una sofferenza per chi lo vive, porta con sé strategie relazionali per mantenerlo. E compagni di classe e docenti sono portati inevitabilmente e inconsapevolmente a partecipare a questo nutrimento del sintomo dell’altro, venendo continuamente sollecitati, sfidati, istigati a reazioni aggressive, invadenti, sfidanti, abbandoniche, allontananti, ansiogene. Questa complessità relazionale richiede al docente di conoscere gli aspetti intrapsichici dell’emotività e delle più ricorrenti diagnosi psicologiche, per non nuocere – anche dove le intenzioni sono ottime – e per non alimentare sfide, invadenze o modalità relazionali che possono alimentare le voci interne di chi già soffre. Per fare questo è necessario trasferire ai docenti non solo conoscenze e teorie, ma anche strumenti concreti, che vanno oltre le metodologie didattiche, per stare con l’emotività dell’alunno senza farsi male.

In classe ci sono storie e vissuti che gli alunni raccontano con i loro sguardi, con le loro posture, con i loro comportamenti. E quelle storie portano dentro bisogni di rassicurazione, di limite, di protezione, di punti di riferimento con cui identificarsi e da cui attingere modelli di comportamento a volte alternativi rispetto ai modelli genitoriali introiettati”.

Nel suo libro fa anche riferimento alla pratica clinica e alla differenza tra educare e curare. In che cosa consiste questa differenza?

“L’educazione avviene nel presente, in quello che accade in classe, nell’incontro tra sistemi limbici, che è anche la premessa della cura. Ma nell’educazione, a differenza di una dimensione clinica e di cura, non si scomoda il passato, e non si entra nelle emozioni dell’alunno. Si può stare con questa emotività, in una modalità rassicurante o limitante a seconda del bisogno dell’alunno in quel momento, offrendo nel presente un modello di gestione dell’emotività, un contenimento, quella che viene definita da alcune teorie la possibilità della co-regolazione, in cui un cervello in preda all’emotività – quello dell’alunno – trova di fronte a sé un altro cervello che gli presta l’adulto e che non reagendo con l’attacco o con la svalutazione a quella emotività, attiva nell’alunno percorsi neuronali più recenti, che se stimolati giorno dopo giorno anche solo stando, senza sfidare o reagire svalutando, costruiranno nel cervello del bambino o dell’adolescente la possibilità di gestire la propria emotività. Inoltre, l’educazione, a differenza della cura e di una dimensione terapeutica, ha un unico setting che è la classe. Non ci sono messaggi tra studenti e docenti il pomeriggio o la sera. Il setting educativo è la scuola e tutte le volte che si tradisce questo setting favorendo comunicazioni via chat o via mail, il docente si espone a rischio e stress: ci sono docenti che ricevono dagli studenti messaggi che annunciano pensieri suicidari e l’alunno non impara che è possibile la dilazione della propria istintività. Le parole scritte sui messaggi e sulla mail danno inoltre origine a interpretazioni e proiezioni e diventano fonte di conflitto se questi strumenti diventano il modo con cui il genitore viene informato sull’andamento didattico o disciplinare del figlio. Tutto questo chi prende decisioni sulla scuola dovrebbe saperlo, ma la psicologia, quella concreta, la disciplina esperta di relazioni e bisogni umani, sembra ancora essere una grande sconosciuta quando si parla di scuola. E lo resterà finché la formazione dei docenti della scuola sarà affidata unicamente alle università”.

Secondo lei la formazione emotiva e relazionale ai docenti da chi dovrebbe essere erogata?

“Se parliamo di emotività e di relazione, dobbiamo affidare questa formazione anche a chi utilizza addirittura la relazione per curare, e cioè agli psicoterapeuti, prendendo alcune delle loro competenze, solo alcune, e condividendole con il mondo della scuola e degli insegnanti, che hanno una gran voglia di seguire corsi di formazione, ma solo a patto che non siano delle ore in cui ai docenti si propongano teorie che ormai hanno sentito e risentito”.

C’è un capitolo del suo libro al quale lei è particolarmente legato?

“Tutti i capitoli che iniziano con gli scritti delle ex studentesse: Camilla, Dalila, Diletta, Gaia, Jessica, Lucrezia, Luna, Matilde, Rebecca. Sono loro, che riflettendo sui loro bisogni soddisfatti o non soddisfatti in alcuni momenti del loro percorso scolastico dalla scuola dell’infanzia alle superiori, mi hanno permesso di affrontare tematiche e situazioni che si verificano ogni giorno in classe e di condividere con i docenti alcune competenze concrete e conoscenze tratte dalla pratica clinica, dalle neuroscienze e dalla psicoterapia che – sempre mantenendo ben chiara la differenza tra curare ed educare – hanno cambiato anche il mio modo di essere docente”.

Torniamo all’urgenza che ha avvertito di scrivere questo libro

“E’ stata l’urgenza di fornire ai docenti alcune conoscenze e strumenti relazionali ed emotivi che sono utilizzati anche nella pratica clinica per costruire una buona relazione con il paziente. Ma che valgono per tutte le relazioni umane. Manca una formazione psicologica concreta che aiuti i docenti a stare con l’emotività degli alunni ma anche che li aiuti a relazionarsi con tutte le sintomatologie psicologiche che ogni giorno il docente incontra in classe affinché il docente abbia a disposizione strumenti emotivi e relazionali per non farsi male nella relazione educativa e per non nuocere agli alunni nonostante tutte le ottime intenzioni che la classe docente ha da sempre. L’urgenza nasce dal fatto che urgente sta diventando la situazione psicologica dei bambini e degli adolescenti di fronte ai quali spesso trovo nelle scuole vissuti di impotenza da parte dei docenti perché si trovano a dover affrontare alcune situazioni alle quali il mondo dell’università e dei diversi percorsi di abilitazione attualmente non li prepara. E’ per questo che nel libro ho dedicato una parte a quello che della clinica un docente deve sapere, dove ho condiviso gli aspetti intrapsichici dell’ansia, degli attacchi di panico, dell’anoressia, della depressione, della passività, del narcisismo e dei tentati suicidi, non per curare ma per permettere al docente di conoscere le dinamiche interne che caratterizzano queste problematiche affinché il docente, sempre mosso da buone intenzioni, non entri nelle sfide e nelle provocazioni o negli atteggiamenti di passività che queste sintomatologie comportano e che per potersi mantenere e nutrire hanno bisogno anche dell’altro. E’ per questo che ho voluto condividere con i docenti queste conoscenze cliniche affinché possano non rinforzare quelle sintomatologie e le voci interne svalutanti che spesso le caratterizzano a svantaggio degli alunni e della relazione educativa”.

Non è sempre facile gestire le classi. Gli istituti non sono tutti uguali, non sono uguali le utenze, gli insegnanti questo lo sanno. Come gestire la propria emotività con le classi più difficili?

“Nelle situazioni difficili ancora di più il lavoro del docente sulla gestione della propria emotività risulta fondamentale per non cadere nelle sfide che gli alunni quotidianamente lanciano al docente, per non reagire con violenza e con svalutazioni alle provocazioni e quindi per non rischiare situazioni di burnout. Per questo i corsi di formazione che anche io erogo nelle scuole sono non soltanto dei momenti in cui devono essere trasmessi e condivisi dei contenuti teorici ma devono diventare delle vere e proprie supervisioni in cui il docente possa portare – in piccoli gruppi di docenti supervisionati da uno psicologo o da uno psicoterapeuta – le proprie fatiche e quello che in gergo psicologico si chiama il contro-transfert, cioè l’insieme di sentimenti, di fatiche e di emozioni che il docente sente verso quella classe o quello studente. Spesso sono sentimenti, emozioni allontananti, abbandonici, a volte svalutanti e di rabbia che il docente ha tutto il diritto di sentire ma che per il proprio benessere e per il benessere degli alunni non deve agire in modo incontrollato all’interno della classe, perché questo comporta rischi non solo per la relazione educativa ma anche per la salute del docente. Occorre poi lavorare sulla relazione, che è l’unico strumento, oltre le note, che lascia aperta la possibilità di intercettare gli studenti più lontani”

Gli studenti sono i protagonisti della scuola, ma prima o poi lasceranno le aule e cercheranno la propria strada fuori dalla scuola. A questo proposito, lei è un po’ critico verso la nuova figura del tutor dell’orientamento. E’ così?

“Il tutor dovrà orientare i ragazzi e le ragazze al futuro professionale ma io penso che si perda ancora una volta di vista il fatto che la scelta del proprio futuro e un orientamento utile alla felicità dello studente debbano passare innanzitutto attraverso l’incontro con il desiderio dello studente e non unicamente come accade adesso attraverso test sulle competenze, attraverso la valorizzazione delle competenze già in essere e attraverso un’analisi delle offerte di lavoro sul territorio. Inorridisco di fronte al fatto che tra le competenze del tutor dell’orientamento sia segnalata quella di fare da ponte con le famiglie e con lo studente indicando i dati delle richieste di lavoro sul territorio evidenziando ancora una volta che il piano psicologico e intrapsichico fondamentale nella scelta libera di una professione o di un futuro di studi è trascurato: vorrei sentir parlare di orientamento inteso come un aiuto dato allo studente o alla studentessa nel permetter loro lo scollamento tra il proprio desiderio e le richieste della società o della famiglia. Trovo spesso in classe, nel lavoro clinico e negli incontri di orientamento con i ragazzi nelle scuole, una confusione interna tra quello che desidererebbero fare loro e quello che esplicitamente o implicitamente desiderano la famiglia o la società a cui appartengono”.

Cosa fare?

“Se vogliamo veramente orientare gli studenti e le studentesse dobbiamo far loro questo regalo: aiutarli a separare e a volte scoprire il proprio sogno, il proprio desiderio da quello di coloro che stanno loro intorno, perché questo farà la differenza nel futuro tra l’avere una vita lavorativa soddisfacente o addirittura felice e una vita lavorativa fatta di attesa del venerdì in una vita lavorativa in cui si sta portando avanti il sogno di qualcun altro e non il proprio. Una volta fatto questo, ma solo una volta fatto questo, si può fare tutto il resto. Ma di questo per il momento nell’offerta di orientamento non c’è traccia”.

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