Beirut, la Venere piegata simbolo della città che prova con coraggio a rinascere. Anche nell’arte

di Francesca Pini

La storia del Libano è millenaria, stratificata: la si riscopre nella statuetta della dea, reperto di Baalbek, conservata al Museo nazionale. In aggiunta alla scena artistica contemporanea, la Fondazione dei collezionisti Tony ed Elham Salamé riapre con una grande mostra curata da Massimiliano Gioni

La resilienza di Beirut è tutta in quella statuetta di una Venere romana (in bronzo, proveniente dal sito archeologico di Baalbek, una meraviglia del patrimonio mondiale Unesco) che dalla posizione eretta si è inclinata in avanti, rimanendo in bilico, ma non cadendo, in quella teca del prezioso e rinnovato Museo nazionale. Rimasta così dal terribile scoppio di quel deposito nel porto contenente 2750 tonnellate di nitrato d’ammonio, che ha sconvolto il 4 agosto 2020 la capitale del Libano, con 270 morti, provocando anche un terremoto di magnitudo 3,5. Questa piccola dea di bronzo è stata lasciata volutamente così: il destino di Beirut è quello di doversi sempre risollevare dalle proprie ceneri, dalle guerre, dagli attentati.

L’attesa (dal 2015) per il nuovo museo di Piano

L’odierna ricostruzione (visibile dalle tante gru che svettano nella zona centrale) può contare sui fondi che arrivano dalla ricca diaspora libanese al proprio Paese, dove l’80% della popolazione è in condizione di povertà avendo perso i propri risparmi e beni da quel 2020. Nel centro di Beirut, in parte militarizzato, alcuni negozi sono ancora sventrati, e sotto i piedi, qua e là, camminando, si pestano frammenti di vetro. La storia del Libano è millenaria, stratificata (va dal neolitico ad oggi, contempla la civiltà fenicia – inventrice dell’alfabeto di 21 lettere, grandi navigatori e commercianti che con la scoperta della porpora hanno fatto fortuna – e l’intreccio con quella mesopotamica, greca, romana, ottomana) sarà l’oggetto di quel museo progettato da Renzo Piano, per ora rimasto in sospeso dal 2015, ma che prima o poi vedrà la luce, il buio non è per sempre.

Scarsa elettricità

I rapporti tra Libano e Israele, nemici da decenni (con incursioni aeree militari israeliane nei cieli libanesi documentati dal videoartista Abu Hamdan, su airpressure.info) hanno visto uno spiraglio. E benché la discussione sulla frontiera di terra sia bloccata, quella marittima è stata regolata – sotto l’egida degli Usa e il semaforo verde di Hezbollah – da un accordo siglato da entrambi le parti poche settimane fa: le royalties dell’estrazione del gas e del petrolio saranno ripartite tra i due fronti, e ciò permetterà al Libano di risalire la china dell’economia. L’elettricità pubblica è per poche ore al giorno, chi può ha messo un generatore privato in casa, pannelli o impianti solari non se ne vedono, benché il sole non manchi, e si potrebbe approfittarne alla grande. C’è stata una ripresa del turismo, toccando i 2,5 milioni di persone con nuovi resort e hotel come quello progettato da Galal Mahmoud, e una zona della valle della Bekaa – lontana da quella dell’enorme campo profughi che accoglie, secondo le ultime stime dell’Unhcr circa 1,5 milioni di rifugiati dalla Siria – verrà presto valorizzata per la sua produzione vitivinicola.

Maya, attivista

Le donne rappresentano il 43% della forza lavoro nell’agricoltura, ma sono sottopagate, soggette a dure abitudini sociali patriarcali e a violenza domestica. Questa situazione della condizione femminile, oltre alla morsa dell’inflazione al 200% per cento, non ha lasciato indifferente un’imprenditrice di Beirut, Maya Ibrahimchah, attivista e fondatrice dell’associazione umanitaria Beit el Baraka, che dà lavoro a queste donne attraverso la produzione dell’artigianato e di prodotti locali. E che con la sua attività sul territorio aiuta oltre 200mila famiglie disagiate; sul versante sanitario ha attivato una rete di distribuzione gratuita di farmaci oltre all’aiuto ad ospedali; nel 2021 hanno risanato oltre 3mila case fatiscenti abitate da anziani, aiutato quasi 700 piccoli negozi a rimettersi in piedi dopo la devastazione dell’esplosione. Ma al cuore della sua azione c’è anche il sostegno all’educazione dei ragazzi, e in quest’anno di crisi, i fondi saranno indirizzati specialmente al pagamento delle bollette dell’energia nelle scuole.

Immagini in bianco e nero

La Beirut delle fotografie di Ziad Antar è molto diversa da quella di Gabriele Basilico che su questa città fece uno dei suoi reportage più famosi, anche Ziad la vede in bianco e nero ma dal mare, in una lontananza sfuocata. Qualcosa dovrà cambiare, e da qualche parte si deve pur ricominciare. L’arte e la cultura indicano una possibile via di rinascita. La poetessa e artista Etel Adnan, celebrata a livello internazionale, recentemente scomparsa, è stata una grande voce del Libano, un’altra gloria è il pittore Nabil Nahas. Beirut ha gallerie come la Saleh Barakat e Marfa’, che partecipano alle più importanti fiere internazionali, e apprezzati artisti libanesi come Ayman Baalbaki e Danielle Arbid con la loro installazione alla 59esima Biennale di Venezia. Non mancano nemmeno i designer come la giovane Joy Herro, che lavora tra il Libano e Milano.

Il collezionista “vorace”

Il museo privato Sursock, molto danneggiato dall’esplosione, riaprirà a primavera anche con l’aiuto della Cooperazione italiana, e il bel dipinto di Artemisia Gentileschi, Ercole e Onfale, che ha subìto i maggiori danni, sta ritrovando la sua integrità nel laboratorio di restauro del Getty Museum di Los Angeles. Il collezionista libanese Tony Salamé – che gode anche della cittadinanza americana, proprietario del mall Aïshti traboccante di luxury goods e importatore dei principali brand mondiali della moda – vive tra Beirut, Milano, Parigi, Londra e New York. Nel silenzio della pandemia, volando in quest’ultima città insieme alla moglie Elham, anziché ritirarsi in Florida o negli Hamptons, è stato forse uno dei pochi collezionisti internazionali ad aver preso la palla al balzo per fare incetta di arte, visitando gli studi degli artisti, le gallerie, comprando opere con la vorace passione che gli è propria (di ogni artista acquista più opere), accompagnato nel suo scouting da Massimiliano Gioni, associate director del newyorchese New Museum. Così quel gattone cattivone ( Bad cat) arancione di Alex Da Corte dialoga con un’opera big size di George Condo, artista su cui il mercato internazionale sta puntando molto anche in vista del suo solo show, nel 2025, al Musée d’art Moderne di Parigi.

Uscire dal tunnel

In aggiunta alla scena contemporanea di Beirut, c’è la Aïshti Foundation, che avvicina le persone all’arte contemporanea in modo trasversale. La contiguità tra il mall del lusso e i quattro piani dell’edificio (che nei suoi 4mila metri quadrati ospita le mostre della collezione di Tony ed Elham Salamé) sono due esperienze che non collidono; la separazione è molto netta, e gli spazi per l’arte hanno quello stile e quell’ampiezza tipica delle migliori gallerie internazionali. Nel 2019, l’attività della Fondazione, come ricorda Gioni, si era chiusa con la grande mostra di Urs Fischer, e nell’anno del Covid anche qui tutto si è fermato. Allora questa mostra Dark Light. Realism in the Age of Post Truth (oltre duecento opere di un centinaio di artisti, tra cui Cecily Brown, Roberto Cuoghi, Jimmie Durham, Mona Hatoum, Josh Kline, Richard Prince, Christina Quarles, Ed Ruscha, Cindy Sherman), è proprio come un’uscita dal tunnel. Lo è non solo per via di quel titolo ( Dark Light, preso in prestito da un dipinto di Nicole Eisenman, che in mostra ha ben 13 opere), ma per la forza dei lavori tutti figurativi e per il concentrato di colore che vibra in ogni sala.

Il trionfo del figurativo in mostra

Basterebbero le solari opere di Etel Adnan nella loro semplicità con l’uso dei colori puri o il sole di raggi azzurri di Shara Hughes, gli alberi neri su cieli in technicolor di Josh Smith, ma ci sono poi anche due acrilici di Valerio Adami con i suoi tipici personaggi contornati di nero, quasi fossero figure di una vetrata di cattedrale. Sulla nozione di realismo e di naturalismo l’approccio degli artisti contemporanei è molto diverso, non c’è vera intesa su che cosa sia questa era della post-verità. Ognuno la interpreta in modo diverso, chi autobiografica, chi sociale, chi surreale come fa Louise Bonnet con parti del corpo giganti, chi ancora in versione romantica (gli uccellini di Ann Craven) chi, come Cynthia Dagnault, la post-verità la vede in una carrellata di visi di personaggi (Diana, Hillary Clinton, Marylin, Condoleeza Rice, Marylin, Greta Thunberg, Meghan…) che lei ritrae nello stile grisaille. Mentre un altro volto noto spunta come una citazione nel dipinto di Jamian Juliano-Villani, ed è quello della ragazza afghana fotografata da Steve McCurry. Gli artisti africani o di origine, hanno conquistato uno spazio sempre più rilevante in musei e gallerie, e anche qui troviamo le opere dei maggiori protagonisti: Amoako Boafo, Jonathan Lyndon Chase, Kehinde Wiley, Lynette Yiadom-Boakye, Arthur Jafa che mette in scena la rabbia di un uomo black.

26 novembre 2022 (modifica il 26 novembre 2022 | 08:38)

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, 2022-11-26 07:39:00, La storia del Libano è millenaria, stratificata: la si riscopre nella statuetta della dea, reperto di Baalbek, conservata al Museo nazionale. In aggiunta alla scena artistica contemporanea, la Fondazione dei collezionisti Tony ed Elham Salamé riapre con una grande mostra curata da Massimiliano Gioni, Francesca Pini

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