Benedetta Tagliabue: «Gaudí, autentico hippy e mia ispirazione. Così ho ridisegnato il volto della nuova città»

di Elisabetta Rosaspina

L’architetta: il mio studio è come un Erasmus, ho giovani di 16 Paesi. «Sono arrivata qui trent’anni fa seguendo Enric Miralles, il futuro padre dei miei figli»

«Arquitecte»: in catalano non pone problemi, termina per «e». Vale per uomini e donne. Dunque le eredi di Antoni Gaudí, l’archistar di Barcellona, non si preoccupano della declinazione al femminile della propria qualifica, sorride Benedetta Tagliabue che da trent’anni, alla testa dello studio Embt, contribuisce a rinnovare l’aspetto di una delle città più vivaci della penisola iberica e, probabilmente, la più amata dagli italiani. Milanese, studi a Venezia e a New York, anche per l’«arquitecte» Tagliabue il rapporto con Barcellona (della quale ha restaurato nel 2005 il mercato di Santa Caterina, dall’inconfondibile tetto ondulato multicolore, nella Ciutat Vella, ha disegnato la Torre Mare Nostrum, sede della compagnia energetica Gas Natural, a Barceloneta, il Parco Diagonal Mar e il Parco dei Colori a Mollet del Vallès) inizia con una storia d’amore. Quella per il collega catalano Enric Miralles, incontrato a Manhattan alla fine degli Anni ‘80, e scomparso nel 2000, quando i figli della coppia erano ancora bambini.

Il logo del loro intenso sodalizio, Embt, è composto dalle loro iniziali e, nel tempo, lo studio ha incluso un’altra sede a Shanghai e progetti in tutto il mondo. Ma, da Barcellona, Benedetta Tagliabue non si è mai più staccata: «Forse con Enric saremmo potuti rimanere a New York. La Grande Mela piaceva molto anche a lui e avrebbe avuto la possibilità di continuare a lavorare lì. L’ho conosciuto perché fu lui ad aiutarmi a preparare la tesi: il nostro primo progetto insieme era stato un luogo di sport e cultura al Central Park, un centro di benessere che univa ai bagni turchi un pezzo del Guggenheim Museum». Ma nei primi Anni ‘90, con l’Olimpiade del 1992, s’inaugurava a Barcellona un periodo d’oro che Miralles, originario della città, non volle perdersi: «Fu un momento di grande effervescenza — ricorda Benedetta Tagliabue —. C’era tantissimo lavoro per tutti gli architetti. Da allora Barcellona ha avuto diversi alti e bassi. Abbiamo vissuto un’altra fase fantastica per la promozione immobiliare, prima della grande crisi mondiale del 2007».

Per un architetto internazionale la stanzialità è un controsenso, e infatti Tagliabue è spesso in trasferta per lavoro: «Barcellona non è una città dove accadono tante cose ma resta un centro nevralgico. Anzi, direi che è un marchio riconosciuto in tutto il mondo». Ne è una dimostrazione il microcosmo dello studio Embt dove affluiscono da tutti i continenti giovanissimi architetti vincitori di concorsi indetti in tutto il globo: «Qui abbiamo una specie di Erasmus che travalica i confini europei e si estende fino alla Cina e a Taiwan», considera la cofondatrice che assicura di essere riuscita a contare fino a 16 nazionalità presenti in contemporanea alle scrivanie e nei laboratori. «Quando scendo nei depositi dei modellini — ride —, l’80% delle legende contiene errori di ortografia». I due figli intanto sono cresciuti: il minore, 25enne, è rimasto a Londra dove ha concluso i suoi studi. La maggiore, 27 anni, si è laureata in architettura ed è tornata a vivere a Barcellona: «Mi dà una mano in studio, ma non prevede di continuare a lavorare con la mamma. Ha altri progetti». E la Catalogna ha una risposta a (quasi) tutte le aspettative della famiglia, comprese quelle extra professionali: «Quando ho un po’ di tempo libero — racconta Benedetta Tagliabue —, esco dalla città e punto a Nord. Al mare, sulla Costa Brava, o in campagna all’Empordà. I Pirenei sono a due ore di macchina, mentre a Sud si arriva rapidamente a Valencia. C’è da sbizzarrirsi, insomma».

Anche limitandosi alla metropolitana locale: «Sì, adoro girare la città a piedi, appena possibile. Prendo il metrò, scendo e scopro nuove zone passeggiando. A chi viene a trovarmi e non conosce Barcellona, suggerisco di visitare in primo luogo la Città Vecchia, attorno alla cattedrale. E naturalmente il Mercato di Santa Caterina. Sulla collina di Montjuïc, la Fondazione Joan Miró, il Museo nazionale di arte della Catalogna: qui tutto trabocca di cultura e di architetture moderne, come il Padiglione di Ludwig Mies Van der Rohe». Senza dimenticare il progettista più grande di tutti: Gaudí. Non è a lui che si è ispirata con quel tripudio di piastrelle variopinte sul tetto dell’ottocentesco Mercato di Santa Caterina? «Sì, non per copiarlo, ma per mantenere lo stesso spirito di Gaudí e dei Modernisti che, per me, erano autentici hippies. Perché cercavano un mondo più naturale, pieno di colori e di riferimenti ai prati e ai fiori».

Meglio però non lasciarsi confondere: l’animo dei catalani non è poi tanto hippy. «In realtà possono sembrare un po’ chiusi inizialmente, e i loro circoli lo sono. Proteggono la loro famiglia e il loro piccolo mondo. Ma hanno anche un lato folle, immaginifico e curioso. Non hanno pregiudizi. Sono grandi viaggiatori e adorano l’Italia e gli italiani, tanto che la città in questi anni si è incredibilmente italianizzata. Gli italiani sono entrati ai vertici di grandi istituzioni culturali, nelle fondazioni catalane. Ma Barcellona si è italianizzata anche nelle piccole cose: quando venni qui per la prima volta pochi sapevano che cosa fosse un cappuccino, ora si trova facilmente anche la burrata, che fino a non moltissimo tempo fa si poteva mangiare quasi esclusivamente in Puglia». Lettrice entusiasta di Eduardo Mendoza («La città dei prodigi», «L’incredibile viaggio di Pomponio Flato» e «La città sospesa», per citare solo alcuni dei suoi titoli), del più autoctono Quim Monzó («Il migliore dei mondi e «Mille cretini»), e della letteratura catalana in lingua originale, Benedetta Tagliabue, come ogni italiano residente in Catalogna, sa di non poter ignorare la questione indipendentista: «È un tema antipatico — ammette —. Nasce, credo, da un’appassionata relazione con il passato, ma porta a una dicotomia che si è accentuata dal 2017, fino a diventare una sorta di guerra civile che non serve a nessuno. Tuttavia no, neanche nei momenti più duri, ho pensato seriamente di lasciare Barcellona. Preferisco questa vita sempre in viaggio, tra Cina, Taiwan, Francia, Italia del Sud». Da catalana errante, insomma.

19 ottobre 2022 (modifica il 19 ottobre 2022 | 22:30)

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