Presidente, le previsioni di crescita del governo per quest’anno (3,1%) sono migliori di quelle del Centro studi Confindustria (1,9%). Chi ha ragione?
«A parità di condizioni, immaginando che lo choc sull’energia perduri e anzi possa aggravarsi, entrambi vediamo una crescita attorno al 2%, cioè quanto già conseguito con la spinta iniziale derivata dall’anno scorso, senza nuovo sviluppo – risponde il leader di Confindustria Carlo Bonomi -. La vera questione è rendersi conto che la velocità della ripresa ha rallentato molto, da ben prima della guerra».
C’entra l’incertezza creata dal fatto che le riforme del Programma di ripresa (Pnrr), previste per quest’anno, di fatto sono al palo?
«Il problema nasce prima, i segnali di frenata iniziano nell’autunno scorso. Come Confindustria avevamo chiesto una legge di bilancio fortemente orientata alla crescita, ma si è sprecata un’occasione. Sono usciti di scena o si avviano a farlo strumenti che aiutavano le imprese a investire per modernizzarsi come il Patent box o gli incentivi di Industria 4.0, tagliati per il futuro. E gli interventi fiscali sono stati in gran parte dissipati, invece di concentrare gli otto miliardi nel taglio dei contributi».
Ma i problemi ora sono il costo dell’energia, la scarsità delle materie prime, una visibilità bassissima sul futuro. Non trova?
«Se si fossero usati meglio gli spazi in legge di bilancio, ci sarebbero state le risorse per sostenere le fasce più colpite dalla pandemia – giovani e donne –, anche a favore della competitività. Avremmo avuto un cuscinetto di fronte agli choc. Mi confronto spesso con i miei colleghi di Francia e Germania e noto una differenza: da loro la difesa dell’industria è un fattore di sicurezza nazionale, perché è l’industria che crea reddito e lavoro. Da noi questa consapevolezza non c’è. Il problema non è del presidente Draghi, ma attiene ai partiti».
In Francia una quota della produzione energetica è riservata alle imprese a prezzi calmierati. Chiede qualcosa di simile anche in Italia?
«Se è per questo in Germania il governo mette a disposizione cento miliardi – dico cento – per favorire la transizione energetica».
Ma l’Italia non se lo può permettere. Dunque, lei cosa propone?
«In primo luogo, bisogna prendere coscienza che il problema dell’energia per noi non è uguale a quello degli altri. È più acuto. La Francia ha il nucleare e ha avviato sei nuove centrali. La Germania produce elettricità anche con il carbone e discute seriamente di rinviare l’uscita di scena del nucleare. Per noi la quota di elettricità prodotta dal gas è molto più alta e questo rischia di diventare un handicap per le imprese, proprio perché il gas è rincarato molto più delle altre fonti di energia».
L’Italia ha proposto un «price cap», un tetto al prezzo del gas, imposto da tutta l’Unione europea ai produttori di Paesi terzi. È la strada giusta?
«Lo è, certo. Ma se l’Europa non lo vuole fare, come sembra finora, dobbiamo farlo da soli: un price cap che valga in Italia sul prezzo del gas comprato all’ingrosso, molto sotto i livelli attuali».
È un’opzione esaminata ma scartata fin qui dal governo. Fattibile?
«Fattibilissimo. L’Arera, l’autorità dell’energia, convoca le imprese importatrici di gas e chiede trasparenza sui loro contratti. Può farlo. Dobbiamo sapere quanto pagano il gas e conoscere la durata dei contratti. Non credo che gli importatori comprino tutto il gas ai prezzi di mercato, impazziti, di queste settimane. A quel punto capiremo come applicare un price cap e quali sono i profitti sull’elettricità. Quest’ultima viene rivenduta a tariffe che riflettono l’altissimo prezzo di mercato attuale del gas: vedremo se c’è chi specula».
Ritiene che nell’elettricità in Italia ci siano chi ricava delle rendite, invece di generare valore aggiunto?
«Noi vogliamo intervenire a monte, sul prezzo del gas all’import. Ma sicuramente sì, c’è chi si avvantaggia oltremodo dei rincari».
L’ultimo decreto del governo interviene già a redistribuire 10% degli extra-profitti delle imprese che beneficiano dall’aumento dei prezzi dell’energia.
«A parte il controverso criterio scelto per calcolarli, il prelievo al 10% libera secondo il governo quattro miliardi in sei mesi mentre, a questi prezzi, gli aumenti in bolletta pari a circa 40 miliardi ne vedranno 36 a carico di imprese e famiglie. Così rischiamo che quel 16-20% attuale di imprese che oggi riducono la produzione diventino in poco tempo il 50%. Eppure, questo non è ancora sentito come un problema di sicurezza nazionale».
Avete altre proposte sull’energia?
«Altre tre: cambiare passo sui 400 impianti di fonti rinnovabili fermi per mancanza di autorizzazioni, specie a livello decentrato; riservare alle imprese una quota di energia prodotta da rinnovabili che rifletta i costi effettivi di produzione e non ai prezzi molto più alti del gas; aumentare la produzione di gas nazionale oltre quanto già deciso fino ad oggi, per esempio nell’alto Adriatico».
Resta che introdurre il price cap sul gas a livello nazionale è più difficile e l’idea di farlo a livello europeo finora è stata bloccata. Perché, secondo lei?
«La Norvegia nel 2021 ha visto crescere i proventi del suo fondo sovrano di 150 miliardi, vendendoci il gas a queste quotazioni di mercato sestuplicate. E ora fa pressioni sui Paesi nordici dell’Unione europea perché non accettino il tetto al prezzo. La Svezia, infatti, si è opposta. Quanto alla Germania, compra il gas dalla Russia verosimilmente a prezzi molto inferiori da quelli che paghiamo noi, per le contropartite date ai russi come NordStream. Dunque, finora, non ci segue».
Presidente, l’inflazione al 7% sta riducendo il potere d’acquisto di chi lavora. Avrete un incontro a Palazzo Chigi dopo Pasqua: si può riflettere su aumenti una tantum, come in Germania, per evitare una spirale di aumenti fra prezzi e salari?
«Sul piano tecnico potrei rispondere che gli aumenti sono già riconosciuti sulla base dell’indice armonizzato dei prezzi (Ipca). E che l’inflazione molto bassa del passato recente ha fatto sì che gli aggiustamenti al rialzo abbiano superato i rincari effettivi del 5% in due anni. Ma è vero: dobbiamo dare più soldi ai lavoratori, e la strada per questo è il taglio dei contributi che finora non si è voluto fare».
Con quali risorse, mentre salgono i tassi d’interesse sul debito?
«Abbiamo 900 miliardi di spesa pubblica ogni anno. Abbiamo abbandonato la spending review, ma non riesco a credere che non si riesca ad avviare un lavoro che ne recuperi almeno 16. Le entrate tributarie sono previste dal Def in aumento da 527 miliardi nel 2021 a 548 miliardi nel 2022, e i contributi sociali da 246 a 263 miliardi. E la discesa del debito pubblico nei piani del governo è consistente. I margini ci sono».
Con la guerra in corso gli obiettivi europei sul clima («Fit-for-55») vanno rinviati?
«Se dobbiamo affrontare trasformazioni così veloci, per raggiungere l’indipendenza energetica e intanto ridurre le emissioni, allora dovremmo investire di più. Nel Pnrr investimenti sono previsti. Ma con quello che è successo, chiediamoci se ha ancora senso impegnare i fondi del Recovery per le piste ciclabili o il decoro urbano. Se non vogliamo investire di più e vogliamo mantenere lo stesso le scadenze europee, allora ci vuole trasparenza perché ci sarà un prezzo sociale da pagare».
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, 2022-04-11 19:58:00, Il presidente di Confindustria: difendere la manifattura è una questione di sicurezza nazionale. Se non si agisce, metà delle imprese rallenterà la produzione. Certe imprese in Italia si avvantaggiano dei rincari dell’elettricità, Federico Fubini