Fabrizio Gifuni: «Il mio Moro, un uomo solo che si sente tradito»

di Valerio Cappelli

In tv la serie sullo statista rapito dai brigatisti. «Ho studiato i suoi discorsi e visto i film con Herlitzka e Volonté. Le sue ultime parole sembrano una tragedia di Shakespeare»

La fronte aggrottata, gli occhi bassi, la voce che non conosce grida. E alle sue spalle il drappo rosso con la stella a cinque punte delle Brigate Rosse. Fabrizio Gifuni è Aldo Moro nei 55 giorni di prigionia, fino all’esecuzione, il 9 maggio 1978. Esterno Notte è la (prima) serie di Marco Bellocchio, in onda su Rai 1 in tre serate, il 14, 15 e 17, con una inedita modalità di programmazione ravvicinata.

Gifuni, come si è preparato nei panni dello statista?

«E’ stata una lunga immersione negli anni, lo spettacolo teatrale, il film sulla strage di piazza Fontana in cui ero Moro 50enne. Ora questo fiume di parole ininterrotte durante i 55 giorni di prigionia dove c’è anche un Moro inedito, è come se mettesse in campo l’arcobaleno delle pulsioni umane. Questa lunga elaborazione mi ha dato la possibilità di fare ciò che ogni interprete cerca: dimenticarsi di tutto e abbandonarsi. Ho letto i discorsi di Moro, visto le interpretazioni di Herlitzka e di Gian Maria Volonté: noi abbiamo cercato una chiave che si concentra sugli stati d’animo che si agitano in ciascun personaggio. Come se la politica non potesse essere slegata dalla vicenda umana».

C’è la solitudine di Moro?

«C’è la rabbia, la fede, l’offesa, il risentimento, si sente vittima di un tradimento, e c’è un sentimento di solitudine fortissima. E’ uno dei fantasmi della nostra storia, corpi a cui non è stata data degna sepoltura, e chiedono che la storia sia raccontata di nuovo».

La somiglianza fisica?

«Abbiamo provato per mesi, fino alla decisione di togliere quasi tutto e di affidarci all’idea che questa evocazione di un fantasma se parte dall’interno produce anche somiglianza fisica. Volevo che l’attore non scomparisse dietro la maschera. L’unica cosa che ho chiesto era di alzare l’attaccatura dei capelli per creare uno spostamento nella proporzione del viso».

Le scene che le sono rimaste dentro?

«Quelle più emotivamente difficili sono il rapimento e la morte, perché girate negli stessi luoghi, via Fani e via Caetani; la più impegnativa e liberatoria è la confessione finale».

Le ultime parole che Moro scrive sono terribili.

«Vorrei capire con i miei piccoli occhi mortali come si vedrà dopo, se ci fosse una luce sarebbe bellissimo. Sembra Essere o non essere, è davvero una tragedia shakespeariana, se non fosse che è vita reale. Moro è l’Amleto di Maglie, la cittadina dove nacque, per la iper riflessione di analizzare il pensiero».

Il rapimento Moro sembra magia nera, sedute spiritiche, segni, numeri che tornano…

«Stranezze accadono anche nella vita di Moro, dove la vita coincide con l’esperienza politica. L’anno del rapimento del 1978 corrisponde all’esperienza di vita: erano passati 33 anni da quando, nel 1945, si era sposato, e da quando era entrato nella Democrazia Cristiana».

Come gli anni di Cristo.

«Nella serie ci sono elementi cristologici, e c’è la grande scena di Moro che porta la croce come Gesù, con i notabili della Dc che pregano dietro».

Com’è stato girare la scena della croce?

«Sapendo che avremmo girato per molte ore, Marco, con riguardo non comune sui set, mi ha detto che avrebbe fatto costruire una croce con un legno leggero, l’ho ringraziato ma gli ho risposto che avrei preferito il peso reale, “fingere” il peso sarebbe stato più complicato. Il risultato è che la mia schiena ne ha risentito per diverse settimane ma è venuta fuori una scena tragica e visionaria di grande forza espressiva».

Il dovere della memoria?

«Non è solo memoria di un’Italia che non c’è più. Noi cerchiamo di ricucire un filo che è stato fatto a pezzi, con spudoratezza e violenza, suggerendo ai giovani che la memoria è inutile, noiosa, divisiva. C’è l’ossessione, da più parti politiche, una litania di dire che siamo un’Italia nuova e la memoria è un ingombro. Come se vivessimo in un eterno presente. Pier Paolo Pasolini diceva che un paese senza memoria è un paese senza Storia».

Cosa le lascia la serie?

«E’ stata un’esperienza unica, anche per il peso del cast. Mi riporta a La meglio gioventù: nasce come progetto televisivo, il Festival di Cannes, le sale, il ritorno in tv».

3 novembre 2022 (modifica il 3 novembre 2022 | 23:12)

© RIPRODUZIONE RISERVATA

, 2022-11-03 22:12:00,

di Valerio Cappelli

In tv la serie sullo statista rapito dai brigatisti. «Ho studiato i suoi discorsi e visto i film con Herlitzka e Volonté. Le sue ultime parole sembrano una tragedia di Shakespeare»

La fronte aggrottata, gli occhi bassi, la voce che non conosce grida. E alle sue spalle il drappo rosso con la stella a cinque punte delle Brigate Rosse. Fabrizio Gifuni è Aldo Moro nei 55 giorni di prigionia, fino all’esecuzione, il 9 maggio 1978. Esterno Notte è la (prima) serie di Marco Bellocchio, in onda su Rai 1 in tre serate, il 14, 15 e 17, con una inedita modalità di programmazione ravvicinata.

Gifuni, come si è preparato nei panni dello statista?

«E’ stata una lunga immersione negli anni, lo spettacolo teatrale, il film sulla strage di piazza Fontana in cui ero Moro 50enne. Ora questo fiume di parole ininterrotte durante i 55 giorni di prigionia dove c’è anche un Moro inedito, è come se mettesse in campo l’arcobaleno delle pulsioni umane. Questa lunga elaborazione mi ha dato la possibilità di fare ciò che ogni interprete cerca: dimenticarsi di tutto e abbandonarsi. Ho letto i discorsi di Moro, visto le interpretazioni di Herlitzka e di Gian Maria Volonté: noi abbiamo cercato una chiave che si concentra sugli stati d’animo che si agitano in ciascun personaggio. Come se la politica non potesse essere slegata dalla vicenda umana».

C’è la solitudine di Moro?

«C’è la rabbia, la fede, l’offesa, il risentimento, si sente vittima di un tradimento, e c’è un sentimento di solitudine fortissima. E’ uno dei fantasmi della nostra storia, corpi a cui non è stata data degna sepoltura, e chiedono che la storia sia raccontata di nuovo».

La somiglianza fisica?

«Abbiamo provato per mesi, fino alla decisione di togliere quasi tutto e di affidarci all’idea che questa evocazione di un fantasma se parte dall’interno produce anche somiglianza fisica. Volevo che l’attore non scomparisse dietro la maschera. L’unica cosa che ho chiesto era di alzare l’attaccatura dei capelli per creare uno spostamento nella proporzione del viso».

Le scene che le sono rimaste dentro?

«Quelle più emotivamente difficili sono il rapimento e la morte, perché girate negli stessi luoghi, via Fani e via Caetani; la più impegnativa e liberatoria è la confessione finale».

Le ultime parole che Moro scrive sono terribili.

«Vorrei capire con i miei piccoli occhi mortali come si vedrà dopo, se ci fosse una luce sarebbe bellissimo. Sembra Essere o non essere, è davvero una tragedia shakespeariana, se non fosse che è vita reale. Moro è l’Amleto di Maglie, la cittadina dove nacque, per la iper riflessione di analizzare il pensiero».

Il rapimento Moro sembra magia nera, sedute spiritiche, segni, numeri che tornano…

«Stranezze accadono anche nella vita di Moro, dove la vita coincide con l’esperienza politica. L’anno del rapimento del 1978 corrisponde all’esperienza di vita: erano passati 33 anni da quando, nel 1945, si era sposato, e da quando era entrato nella Democrazia Cristiana».

Come gli anni di Cristo.

«Nella serie ci sono elementi cristologici, e c’è la grande scena di Moro che porta la croce come Gesù, con i notabili della Dc che pregano dietro».

Com’è stato girare la scena della croce?

«Sapendo che avremmo girato per molte ore, Marco, con riguardo non comune sui set, mi ha detto che avrebbe fatto costruire una croce con un legno leggero, l’ho ringraziato ma gli ho risposto che avrei preferito il peso reale, “fingere” il peso sarebbe stato più complicato. Il risultato è che la mia schiena ne ha risentito per diverse settimane ma è venuta fuori una scena tragica e visionaria di grande forza espressiva».

Il dovere della memoria?

«Non è solo memoria di un’Italia che non c’è più. Noi cerchiamo di ricucire un filo che è stato fatto a pezzi, con spudoratezza e violenza, suggerendo ai giovani che la memoria è inutile, noiosa, divisiva. C’è l’ossessione, da più parti politiche, una litania di dire che siamo un’Italia nuova e la memoria è un ingombro. Come se vivessimo in un eterno presente. Pier Paolo Pasolini diceva che un paese senza memoria è un paese senza Storia».

Cosa le lascia la serie?

«E’ stata un’esperienza unica, anche per il peso del cast. Mi riporta a La meglio gioventù: nasce come progetto televisivo, il Festival di Cannes, le sale, il ritorno in tv».

3 novembre 2022 (modifica il 3 novembre 2022 | 23:12)

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, Valerio Cappelli

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