Cari docenti, con lautoritarismo rischiate il burn out. Bisogna cambiare metodo, iniziamo con labolire i voti. INTERVISTA al Dirigente Paolo Fasce

Siamo quasi in dirittura d’arrivo. Mancano pochi giorni all’avvio del nuovo anno scolastico. Ma come sarà questo avvio e quale anno scolastico ci dobbiamo attendere? Ne parliamo con un autorevole dirigente scolastico, il prof. Paolo Fasce Scuola autore del famoso “Giuro di dire tutta la verità. Dialogo a più voci dal mondo dell’istruzione” e di “A scuola di Sudoku. Storia, tecniche di soluzione, suggerimenti didattici”. Paolo Fasce è dirigente scolastico dell’Istituto Tecnico dei Trasporti e Logistica “Nautico San Giorgio” e “Nautico Cristoforo Colombo” di Genova.

Dirigente, la società cambia a una velocità inverosimile; e la scuola?

«La scuola sta provando a modificarsi, trasformando le aule. È un passaggio obbligato, ma né necessario, né sufficiente. Spiego sempre, quando vesto i panni di formatore degli/delle insegnanti, che mettere i banchi ad isola e lavorare per gruppi non costa niente, nessuno può impedircelo, incarna una didattica attivistica e solidale, sviluppa interesse, ma non lo fa quasi nessuno, in particolare alle sedicenti superiori dove la dispersione scolastica e i tassi di non ammissione fanno paura».

Tra poche settimane prende avvio l’anno scolastico 2023-2024. In più attendono cambiamenti significativi nella scuola italiana. Davvero sarà, il prossimo, l’anno della svolta?

«No, non lo sarà. Per esserlo occorre un cambio di mentalità nei suoi operatori. Ancora oggi, leggendo i commenti degli insegnanti ad i post di OrizzonteScuola leggo che c’è chi si lamenta di non riuscire a bocciare perché, copio e incollo, per migliorare “bisognerebbe cambiare l’approccio dei ragazzi e dei loro genitori al concetto di studio=impegno=sacrificio”, mentre la soluzione non può che essere altra, quella del cambio metodologico perché chi insiste con l’autoritarismo rischia il burn out, quindi lo dico nel suo interesse, e il fallimento negli apprendimenti. Dovremmo cambiare nome: da “insegnanti” a “esperti/scienziati dell’apprendimento”. Ma lo siamo?».

La “condotta” o il cosiddetto comportamento restano priorità nella scuola italiana? Fino ad oggi come ha reagito la nostra scuola alla questione che interessa alcuni (per fortuna pochi) studenti italiani? Il nostro sistema formativo di cosa avrebbe bisogno, davvero?

«Nella mia scuola abbiamo approfondito giuridicamente il tema del cinque in comportamento. Abbiamo stilato un regolamento che stimo sia “a prova di ricorso”. Tecnicamente, quindi, oggi possiamo bocciare con un cinque di comportamento. Quando succederà, sarà una sconfitta per tutti perché non riesco a capire come non sia evidente a tutti il fatto che la reazione difensiva o violenta che incutiamo negli studenti, nelle studentesse e nelle famiglie nasce da una mancata collaborazione che è davvero possibile: compilare il registro elettronico con puntualità (cosa quasi indispensabile per gli studenti le studentesse con DSA che sono dappertutto), assicurare feedback orientativi e non punitivi, aderire alla valutazione formativa (che non significa “diventare buonisti!!!”), supportare con attività pomeridiane di recupero… tutte cose alla portata di cui la scuola deve farsi carico e che dobbiamo volere per primi. Invece ci riduciamo allo stile che ho battezzato SSID: spiego, studi, interrogo, dimentichi. Ore e ore di studio che vanno in fumo perché il cervello non funziona come pensano gli/le insegnanti apologeti del sacrificio. Dovremmo volere la rivoluzione didattica semplicemente perché ci sono strategie che funzionano e altre che non funzionano. Perché ci accaniamo su quelle che non funzionano più? Accetteremmo un’operazione chirurgica che ci squarcia la pancia quando con un braccio robotico oggi basta un buchino e il giorno dopo sono già a casa? Perché siamo così conservatori?».

Bullismo e cyberbullismo restano sempre attuali e prioritari o, accanto ad essi, le nuove devianze stanno vieppiù interessando la vita delle nostre scuole?

«Stimo che ci sia una piccola percentuale di disagio psichiatrico che va affrontato con una rete di servizi, ma nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di devianze indotte da una scuola oppressiva e competitiva, incapace di fare una vera e propria educazione alla cittadinanza, infatti educhiamo alla competizione. D’altro canto il service learning chi lo conosce? Si diffonde, mi pare, il “debate” che, in fondo, è contrapposizione sofistica».

Quali problemi rimangono irrisolti a poche settimane dall’avvio del 2023-2024?

«Sinceramente, tutti. Ma non demordiamo. Abbiamo strumenti e capacità per migliorare e scommetto che verrà un giorno nel quale ci renderemo conto dei fatti e ne terremo conto».

La valutazione rimane il nodo irrisolto della scuola italiana. Voto sì o voto no? Più e meglio ancora sarebbe utile comprendere se davvero al centro della valutazione ci sono le competenze e la formazione dell’uomo o del cittadino o rimangono, come lamentano in molti, genitori, alunni e gli stessi docenti, le conoscenze?

«Il voto va abolito. È causa di malessere, viene utilizzato come una clava. Occorre convergere rapidamente verso la valutazione formativa. Giudizi descrittivi che orientino l’apprendimento. La penna rossa va affiancata dalla penna verde, con la quale occorre sottolineare anche i punti positivi del compito. Le griglie di valutazione vanno usate per davvero. Oggi ci sono formalmente per poter dire al giudice “ecco la griglia, la nostra è una valutazione che rientra nella discrezionalità tecnica” e sfangarla, ma stiamo mentendo e, cosa ben peggiore, facciamo dei danni. Primum non nŏcēre, diceva il detto alla base della medicina, già dall’antichità. Trasferiamolo anche in didattica. E non sto parlando di regalare o di buonismo. Sto parlando di efficacia».

La scuola italiana è la scuola del Merito? Cosa servirebbe e cosa c’è già?

«Abbiamo costruito una scuola che incarna una competizione continua. Semplici moltiplicazioni e divisioni mi hanno portato a stimare in due voti alla settimana il livello di prestazione richiesto agli studenti e alle studentesse. È insensato. Dobbiamo costruirne una entro la quale la collaborazione e la crescita collettiva è perseguita con le didattiche attivistiche in classe e non solo con la retorica delle “relazioni di fine anno”. Il “merito” così come siamo strutturati è semplice classismo. Dobbiamo aprire gli occhi ed evolvere».

Se volesse utilizzare questo quotidiano per indirizzare un messaggio, una richiesta, una proposta al ministro dell’Istruzione e del Merito prof. Valditara, cosa direbbe? Cosa proporrebbe?

«Nell’ultimo contratto si è stabilito che la formazione deve rientrare nelle 40+40 ore settimanali. Questo cavillo è figlio dell’anno scolastico 2021/2022 allorquando furono imposte per legge 25 ore di formazione sull’inclusione scolastica. Qualcosa di sacrosanto, ma che ha provocato contestazioni che stento a descrivere con un aggettivo appropriato. Penso che ogni anno dovrebbero esserci 25 ore di formazione per legge su un argomento specifico: la legislazione scolastica, la valutazione formativa, le neuroscienze per l’apprendimento, le dinamiche di gruppo, le didattiche attivistiche, le tecnologie nella didattica… ci sarebbe molto da imparare per trasformare la didattica, ma chiuse le SSIS e i TFA, dove si imparano queste cose? Farne una all’anno mi pare doveroso, possibile, accettabile. Mi pare che questo contratto ci abbia portato indietro. Mi allargo e faccio una seconda proposta: il periodo di prova per il personale assunto a tempo determinato. Il meccanismo delle graduatorie è un tapis roulant che, prima o poi, raccoglie chi è determinato e, spiace dirlo, ma i più determinati sono quelli che altrove non hanno alcuna possibilità per limiti personali autoevidenti, rilevati dai genitori, riportati ai dirigenti che sono impotenti in merito. Potare gli incapaci mi parrebbe un balzo in avanti enorme perché anche se sono pochi, danneggiano parecchio anche la credibilità del sistema scolastico nel suo insieme».

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