Che cos’ha spinto Zelensky a cedere all’Azovstal? E in cambio di che? I retroscena della resa dell’acciaieria

di Francesco Battistini

Ora Kiev mette una condizione: «Senza il ritorno dei soldati nessun negoziato potrà cominciare». Uno scambio con Viktor Medvedchuk, magari, l’oligarca ucraino amico di Putin

DAL NOSTRO INVIATO
KIEV «Proviamo coi turchi». Schiacciato dall’incubo dell’acciaieria, pressato dall’eroismo obbligatorio, raccontano che Volodymyr Zelensky non ha dormito notti intere. A Chernihiv avevano stampato i cartelloni, «aspettiamo a casa i nostri eroi». Su Change.org era partita la petizione dalle mogli dei soldati di Azov, un milione di firme, perché «una figura internazionale» intervenisse a mediare. Ma da settimane non si vedeva proprio una luce, in quei sotterranei: «Era impossibile sbloccare la situazione per via militare — spiega Zelensky —, ci siamo dovuti affidare alla diplomazia».

Quale? Il primo spiraglio, spiega una fonte diplomatica europea, è arrivato con una telefonata la mattina dell’8 maggio. I russi avevano finalmente detto sì al corridoio d’Onu e Croce rossa, per far uscire dall’Azovstal almeno le donne, i bambini e gli anziani. Ora si trattava di salvare la pelle dei militari: non solo Azov, anche la 12esima brigata della Guardia nazionale, la 36esima dei marines, l’antiterrorismo, gli agenti dei servizi Sbu, i poliziotti, le guardie di frontiera, i volontari, tutti quelli che erano rimasti intrappolati a combattere là sotto. Quando suona il cellulare, quella mattina, è la chiamata che Zelensky aspettava. Dall’altra parte c’è lo storico leader dei tatari di Crimea, Mustafa Dzhemilen, che siede alla Rada di Kiev. È un buon amico di Erdogan, da giorni chiede al presidente turco di trovare una via di fuga: una nave che porti gli assediati fuori da quell’inferno. Dzhemilen ha un messaggio del Cremlino per gli ucraini, fatto filtrare attraverso Ankara: dev’essere Zelensky a dare l’ordine ad Azov d’arrendersi, dicono i russi, solo così la situazione può sbloccarsi. «Non abbiamo ore — avverte Dzhemilen —, abbiamo secondi». Manca poco al 9 maggio, però. Alle celebrazioni di Putin sulla Piazza Rossa. Al fatidico anniversario della vittoria sovietica sul nazismo. Alla giornata in cui tutto il mondo guarda a Mosca. E non si può, pensa Zelensky, regalare ai russi un simile annuncio: il presidente ucraino domanda che dentro l’acciaieria resistano ancora. Solo un pochino. Poi, si potrà fare: lo darà personalmente lui, l’ordine d’arrendersi.

I mediatori

Il ruolo dei turchi. Le pressioni d’israeliani e francesi. L’intervento degli svizzeri, che hanno appena riaperto l’ambasciata a Kiev e vogliono ospitare in luglio una specie di conferenza di pace. E probabilmente, una decisiva telefonata degli americani. «Lo sblocco è stato concordato coi partner occidentali», dice Zelensky, per evitare la morte sicura di «centinaia» (dicono gli ucraini) o «migliaia» (2.439, precisano i russi) di militari chiusi per 82 giorni negli 11 km quadrati della più grande acciaieria d’Europa. Ora che è finita, le tv del Cremlino mostrano le svastiche tatuate e le aquile hitleriane di Azov, per minimizzare lo stallo militare cui diciassette brigate di Putin sono state costrette dalla resistenza d’un manipolo. E anche la retorica di Kiev trasforma la resa in un’evacuazione — «sono le nostre Termopili» —, facendo passare la definitiva conquista russa di Mariupol per «una vittoria di Pirro».

Le pressioni

Ma la domanda resta: che cos’ha spinto Zelensky a cedere? E in cambio di che? L’8 maggio, s’era ancora appesi alle richieste al segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres. E solo il 10 maggio, una settimana prima della soluzione, i russi avevano bombardato l’acciaieria 38 volte in un giorno. Il 12, l’ambasciatore ucraino all’Onu s’era appellato disperato al diritto umanitario internazionale. Il 13, c’era stata l’implorazione pubblica di tre ex presidenti ucraini, Petro Poroshenko, Viktor Yushchenko e perfino dell’impopolarissimo Leonid Kuchma, «l’amico di Mosca». Il 14, la ministra Iryna Vereshchuk aveva detto che solo una sessantina d’intrappolati sarebbero stati evacuati. Di colpo, quattro giorni fa, Zelensky ha mollato: «Gli eroi ci servono vivi», ha detto. Non poteva più tenere le pressioni d’alcuni suoi militari, spiega la fonte diplomatica, che erano disposti perfino a un’offensiva «clamorosa e altamente simbolica» sull’Azovstal. Il presidente ha considerato Mariupol ormai persa — «è morto il 90 per cento dei nostri elicotteristi che hanno provato a portare aiuti all’acciaieria» — e non se l’è sentita di continuare il braccio di ferro. Quanto l’abbia digerita chi sosteneva gli eroi, non si sa. L’ala di chi non accetta cedimenti, e neppure negoziati, è predominante: «Non conosco altri confini che quelli dell’indipendenza del 1991», chiarisce il capo dell’intelligence militare, Kyrylo Budanov, casomai tornasse l’idea di rinunciare a qualcos’altro. Gli Azov se ne vanno al loro destino nelle prigioni russe, Zelensky dice «li riporteremo a casa». Uno scambio con Viktor Medvedchuk, magari, l’oligarca ucraino amico di Putin che «Ze» fece arrestare più d’un anno fa, scatenando l’ira dello Zar. O uno scambio di prigionieri di guerra: in otto anni di Donbass, è l’unica cosa su cui Mosca e Kiev hanno sempre trovato un accordo.

21 maggio 2022 (modifica il 22 maggio 2022 | 09:43)

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, 2022-05-22 11:49:00, Ora Kiev mette una condizione: «Senza il ritorno dei soldati nessun negoziato potrà cominciare». Uno scambio con Viktor Medvedchuk, magari, l’oligarca ucraino amico di Putin, Francesco Battistini

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