Le modifiche apportate al Codice di comportamento dei dipendenti pubblici comprimono gli spazi di discussione e di libertà di parola dei dipendenti pubblici e sono espressione di un Governo alla continua la ricerca di strumenti per il controllo del dissenso.
Questa è l’aspra critica mossa al D.p.r. 13 giugno 2023, n. 81, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 29 giugno, ed entrato in vigore il 14 luglio scorso. Il decreto interviene sul Codice, D.p.r. 16 aprile 2013, n. 62, introducendo l’art. 11-bis Utilizzo delle tecnologie informatiche e l’art. 11-ter Utilizzo dei mezzi di informazione e dei social media.
Uso delle tecnologie informatiche
Il nuovo art. 11-bis prevede le seguenti misure:
- l’utilizzo di account istituzionali è consentito per i soli fini connessi all’attività lavorativa o ad essa riconducibili e non può in alcun modo compromettere la sicurezza o la reputazione dell’amministrazione
- l’utilizzo di caselle di posta elettroniche personali è di norma evitato per attività o comunicazioni afferenti il servizio, salvi i casi di forza maggiore dovuti a circostanze in cui il dipendente, per qualsiasi ragione, non possa accedere all’account istituzionale
- il dipendente è responsabile del contenuto dei messaggi inviati
- i dipendenti si uniformano alle modalità di firma dei messaggi di posta elettronica di servizio individuate dall’amministrazione di appartenenza. Ciascun messaggio in uscita deve consentire l’identificazione del dipendente mittente e deve indicare un recapito istituzionale al quale il medesimo è reperibile
- al dipendente è consentito l’utilizzo degli strumenti informatici forniti dall’amministrazione per poter assolvere alle incombenze personali senza doversi allontanare dalla sede di servizio, purchè l’attività sia contenuta in tempi ristretti e senza alcun pregiudizio per i compiti istituzionali
- è vietato l’invio di messaggi di posta elettronica, all’interno o all’esterno dell’amministrazione, che siano oltraggiosi, discriminatori o che possano essere in qualunque modo fonte di responsabilità dell’amministrazione.
Queste le regole contenute nell’art. 11-ter alle quali tutti i dipendenti pubblici dovranno attenersi:
- nell’utilizzo dei propri account di social media, il dipendente utilizza ogni cautela affinché le proprie opinioni o i propri giudizi su eventi, cose o persone, non siano in alcun modo attribuibili direttamente alla pubblica amministrazione di appartenenza
- in ogni caso il dipendente è tenuto ad astenersi da qualsiasi intervento o commento che possa nuocere al prestigio, al decoro o all’immagine dell’amministrazione di appartenenza o della pubblica amministrazione in generale
- le comunicazioni, afferenti direttamente o indirettamente il servizio non si svolgono, di norma, attraverso conversazioni pubbliche mediante l’utilizzo di piattaforme digitali o social media. Sono escluse da tale limitazione le attività o le comunicazioni per le quali l’utilizzo dei social media risponde ad una esigenza di carattere istituzionale
- i dipendenti non possono divulgare o diffondere per ragioni estranee al loro rapporto di lavoro con l’amministrazione documenti, anche istruttori, e informazioni di cui essi abbiano la disponibilità.
La FLC CGIL impugna il provvedimento
“Il provvedimento – scrive la FLC CGIL – ha lo scopo di perseguire, inasprendo le sanzioni, i comportamenti e le opinioni ritenute nocive per il prestigio, il decoro, l’immagine dell’amministrazione di appartenenza o della pubblica amministrazione in generale, siano esse manifestate attraverso i social media o altri canali. La norma, infatti, producendo una maggiore indeterminatezza delle condotte sanzionabili, espone i dipendenti pubblici agli eccessi degli spazi interpretativi d’intervento e a una maggiore discrezionalità da parte di chi, preposto ad assicurare il rispetto della norma, avrà il compito di sanzionarne la violazione e attivare procedure disciplinari. La questione risulta ancora più delicata e perfino pericolosa se riferita ai luoghi della conoscenza, che hanno nella libertà di parola e di insegnamento sancita dagli articoli 21 e 33 della Costituzione, il senso alto della loro funzione”.
“Il rischio di ledere la sfera dei diritti e delle libertà dei singoli, – continua il Sindacato – che sono insieme principi e obiettivi dell’istruzione, avrebbe richiesto un ripensamento, come lo stesso Consiglio di Stato ha segnalato nel parere consultivo inviato al Governo e puntualmente ignorato”.
Da qui la decisione di impugnare il provvedimento, per le seguenti ragioni:
- esprime un eccesso di potere in presenza di difficoltà interpretative anche in riferimento a principi costituzionali. Ricordiamo che il lavoro pubblico ha tra i suoi valori quello di essere libero da condizionamenti di natura politica e culturale, ma assoggettato ad un codice di comportamento, ispirato ai principi costituzionali;
- viola il testo unico sul pubblico impiego in tema di individuazione delle condotte sanzionabili, rendendole generiche ed interpretabili da parte di chi avrà la responsabilità della loro applicazione;
- viola gli articoli 21, 25, 97 della costituzione: non v’è dubbio che il lavoratore debba perseguire con la propria prestazione lavorativa l’interesse pubblico a cui aspira l’Amministrazione datrice di lavoro, ma al contempo non devono essere compresse le libertà costituzionali fondamentali quali la libertà di pensiero e di libera espressione dello stesso. Ciò è ancora più vero da quando il rapporto di lavoro pubblico è stato delegificato con la sua contrattualizzazione.
“È evidente – conclude il Sindacato – che si tratta dell’ennesimo tentativo di affermare un modello culturale basato logiche sanzionatorie e repressive a tutela dell’ordine costituito, prive di respiro educativo. Noi non ci stiamo“.
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