Paola Bortoletto, presidente nazionale dell’ANDIS, l’associazione dei dirigenti scolastici italiani, tenta di tracciare, con assoluta lucidità, la strada che sarebbe necessario percorrere per far si che la nostra scuola sia davvero percepita per la grande qualità dei suoi professionisti. Parlarne solo in determinati momenti della storia serve a poco. La scuola deve puntare al massimo perché da essa dipende il futuro della nostra nazione. Ancora una volta la professoressa Paola Bortoletto indica, con chiarezza, alcune priorità. E lo fa senza reticenze e principalmente con una chiarissima visione del domani.
Le figure di mezzo, quelle che a vario titolo ruotano attorno al dirigente scolastico, continuano, come è giusto che sia a rivendicare un ruolo più definito, il riconoscimento giuridico del loro impegno e un orario meglio definito. Quanto è importante il middle management nella scuola italiana?
«Come già anticipato poc’anzi, noi riteniamo centrale il ruolo di queste figure professionali di middle management, che sono altro rispetto a quanto definito frettolosamente in questi ultimi giorni nei termini di “docenti esperti”. Esse sono figure che coadiuvano il dirigente scolastico nella gestione e nell’organizzazione di una realtà complessa quale quella delle II.SS. autonome, quasi sempre dislocate su svariati plessi, sovente anche su comuni diversi, con ordini di scuola diversificati, con connotazioni territoriali non sempre omogenee, che devono interagire con i diversi stakeholders ed enti locali, sempre lavorando per il raggiungimento degli obiettivi educativi e formativi declinati nel proprio Progetto d’Istituto.
Un importante riferimento scientifico sulla definizione e sulla funzione di queste figure è stato dato dalle ricerche condotte qualche anno fa dal Prof. Angelo Paletta, del Dipartimento di Scienze Aziendali dell’Università di Bologna, anche nella prospettiva di uno sviluppo differenziato della carriera docente. Ciò riflette l’idea di “leadership diffusa” promossa dall’Andis, grazie alla quale il dirigente riconosce e valorizza le diverse competenze ed il contributo che queste forniscono per la crescita di una organizzazione complessa. Tale valorizzazione dovrebbe riscontrare un riconoscimento non solo in termini professionali, ma anche economici, non limitati soltanto al F.I.S. (Fondo di Istituto)».
Etica prima di tutto. Quanto incide l’etica o l’assenza di etica sul futuro della scuola italiana?
«Come ben asserisce, l’etica è alla base di qualsiasi azione della scuola, che è un’istituzione che, per dettato esplicito della legge, deve formare le giovani generazioni alla cittadinanza attiva, responsabile e solidale. Da molti anni l’A.N.DI.S. ha ritenuto di doversi dotare di un Codice etico del dirigente scolastico che mette al centro la visione di una scuola pubblica di qualità, capace di educare i giovani ai valori della cittadinanza, dell’inclusione, della solidarietà, della corresponsabilità. Un codice etico che mette al centro del processo educativo gli studenti perché diventino protagonisti del proprio futuro e della costruzione di un futuro sostenibile ed inclusivo. In un processo di apprendimento educativo è fondamentale non solo la trasmissione dei saperi, ma l’orientamento ed il coordinamento di tutte le azioni per il perseguimento del bene comune e per la creazione del capitale sociale. Tale processo deriva da un’azione sinergica tra scuola, famiglia, Enti Locali, imprese e associazioni del territorio. È impensabile immaginare una comunità educante che si chiuda all’innovazione e al cambiamento o che alimenti atteggiamenti discriminatori e pregiudiziali. Questa, sicuramente, non è una connotazione della scuola italiana. Tra gli ultimi e significativi esempi a testimonianza di ciò, basti pensare alla grande capacità inclusiva dimostrata in occasione del conflitto tra Russia e Ucraina e che ha visto e continuerà a vedere migliaia di studentesse e studenti ucraini accolti in tutto il territorio nazionale e in ogni ordine di scuola, a partire dalla Scuola dell’Infanzia. Una vera lezione di vita per tutti noi».
Riforme della scuola. Se ne possono contare diverse, a vario titolo, decine nella storia della nostra Repubblica. Cosa cambierebbe davvero la scuola? Cosa avrebbe bisogno l’istruzione per competere sinceramente con gli altri Paesi europei e non solo con quelli?
« Già prima della crisi pandemica le indagini nazionali e internazionali sui sistemi educativi segnalavano un quadro dei risultati di apprendimento della scuola italiana vistosamente disomogeneo, con interi territori caratterizzati da sensibili ritardi rispetto agli obiettivi educativi indicati dall’U.E.: alti tassi di dispersione scolastica, bassi livelli di abilità e competenze soprattutto in campo matematico-tecnico-scientifico, mancato raggiungimento dei livelli di apprendimento previsti dalle Indicazioni Nazionali e dalle Linee guida. Al centro dell’apprendimento futuro le tradizionali partizioni disciplinari dovrebbero essere superate procedendo verso oggetti/obiettivi complessi, multidimensionali, nei quali coesisteranno elementi linguistici, fisico-matematici, estetici e anche musicali e filosofici, come potrebbe essere in unità di apprendimento supportate anche dalle tecnologie».
Piani di studio più personalizzati?
«I piani di studio non potranno che essere più leggeri e personalizzati, da costruire attorno a un “core curriculum essenziale”.
Le idee guida delle politiche educative, tenendo conto anche del goal 4 dell’Agenda 2030 dell’ONU (“Assicurare un’istruzione di qualità, equa ed inclusiva, e promuovere opportunità di apprendimento permanente per tutti”), saranno digitalizzazione, inclusione, personalizzazione, flessibilità nella progettazione dei percorsi di apprendimento, nella pianificazione degli orari, nella definizione del monte ore».
Serve, dunque, investire di più?
«Serve investire di più, fin dalla scuola primaria, sul potenziamento delle competenze digitali e informatiche di base, ma anche sulle competenze matematiche e scientifiche e particolare attenzione va posta al miglioramento della didattica negli istituti del 2° ciclo, ma anche sulla valutazione formativa che accompagna il processo di apprendimento intrecciandosi con l’insegnamento, che non si ferma alla misurazione, ma include l’apprezzamento dell’insegnante, che comprende l’autovalutazione e lo sviluppo metacognitivo, che considera l’apprendimento un processo incrementale».
Il Diritto nelle scuole Italiane. È bastevole l’educazione civica o, in più, la nostra scuola dovrebbe aprire all’insegnamento del Diritto?
«Sicuramente questa apertura è auspicabile in tutti gli ordini di scuola. L’educazione civica è una branca di insegnamento certamente utile e trasversale, che però è altro rispetto all’insegnamento del Diritto. Se la missione principale della scuola è quella di formare cittadini attivi, responsabili e produttivi, il Diritto costituisce sicuramente uno strumento che consente ai giovani di riconoscere ed analizzare in maniera più adeguata i rapporti che intercorrono tra una persona ed un gruppo organizzato, in ciascun contesto di convivenza civile. Inoltre, il “pensiero giuridico”, che non è solo obbedienza alle regole, cambia il modo in cui le persone affrontano i problemi difficili, perché fornisce loro strumenti per organizzare fatti e valori per arrivare a una decisione ragionata e attuabile.
È chiaro che uno studio ragionato delle norme non può essere condotto da docenti che non hanno una formazione giuridica specifica, con conseguenti competenze e abilità, ma al contempo occorrerà riflettere sulle modalità di tale apertura nei piani dell’offerta formativa».