Comè difficile valutare, due esperienze in classe con i maturandi

Inviato da Rossella e Anna Rosa – A fine anno scolastico è mia consuetudine chiedere agli studenti più grandi (quelli di quinta liceo) di esprimere liberamente pensieri, notazioni, consigli e critiche. Mi ritaglio un paio d’ore di discussione in cui cerco di favorire un confronto aperto sulla percezione che hanno tratto dalle mie ore di insegnamento.

Si tratta di un feedback per me utilissimo a ricalibrare la didattica in termini di contenuti o metodi impiegati. Quest’anno, poi, è stato un esercizio particolarmente illuminante perché, dopo tanto insegnamento alternativo sperimentato dai maturandi, ho scoperto alcuni dati interessanti. Immaginabile che tutti apprezzassero il ripristino della quotidianità, delle lezioni in presenza, del clima di classe, ma che fossero così critici su alcuni aspetti della didattica, per così dire innovativa, non me l’aspettavo. Nella fase del rientro, gli insegnanti hanno “traghettato” verso la normalità attraverso un insegnamento soft, favorendo un riaggancio graduale alla prassi didattica consuetudinaria. Per mio conto, ho cercato di favorire approfondimenti e relazioni di gruppo, nella convinzione che ci fosse bisogno di rinsaldare i legami e rendere più protagonisti e attivi gli studenti. Strategie come “classi capovolte”, debate, o semplicemente verifiche interattive con gli ausili digitali mi sembravano buone pratiche da incentivare, dopo che le avevo faticosamente apprese e applicate durante la dad. E cosa scopro? Che le attività più apprezzate sono state quelle di insegnamento tradizionale, in cui io, attraverso, i testi, facevo “parlare” gli autori, sviscerandone caratteristiche e peculiarità, secondo un metodo di approccio da “lezione frontale”. Invitati a riflettere sul perché, i miei studenti hanno aggiunto che sentivano il bisogno dell’insegnante che con la sua voce (Quintiliano l’aveva detto tanto tempo fa…) rendesse materialmente e corporeamente viva la lezione. L’autorevolezza e la sicurezza che l’adulto sembrava trasmettere erano di gran lunga preferibili al confronto, alle discussioni tra pares,alle presentazioni in Power Point davanti alla classe, al punto da essere questi ultimi giudicati metodi noiosi. Insomma, l’approccio indiretto del docente da dietro le quinte non era piaciuto così tanto. Ovviamente, non si tratta di tornare indietro, ma di trovare un equilibrio tra i metodi, togliendo un po’ di aura alla digitalizzazione a tutti i costi.

L’altro annoso e spinoso problema, su cui ho invitato a riflettere è stata la valutazione. Incorsa io stessa, appunto, in un errore di valutazione nella fase di programmazione di metodi e strategie da rientro, ho voluto provocare gli studenti su un aspetto non facile della didattica. La domanda era: come avete percepito la valutazione? Che vissuti ha mosso? Che significato vi avete attribuito? Anche qui, più o meno tutti concordi: pur riconoscendo che ad essere valutata era la prova e non la persona, molti hanno vissuto la difficoltà ad accettare l’esito, ovviamente quando risultava negativo. Al contempo, hanno apprezzato la possibilità data, talvolta, di autovalutazione e lo spazio di miglioramento che questa ha offerto.

E CON I PRIMINI

Dopo molto tempo, quest’anno sono tornata ad insegnare Italiano e Storia in una classe prima di liceo. Ovviamente, ho dovuto calibrare la didattica adeguandola alla realtà di un biennio composto da alunni che provenivano dalla lunga esperienza della DAD che non hanno amato granché: una sorta di sfida entusiasmante che mi ha messo a contatto con una fascia d’età divisa tra la ricerca d’autonomia dagli adulti e il bisogno di ottenere da loro attenzione e interesse. In particolare, mi sono trovata a dover gestire, il martedì, tre ore di lezioni; così ho deciso di usare uno di quegli spazi come una sorta di valvola di decompressione, dedicandola alla lettura di un romanzo, Montedido di Erri De Luca.La scelta ha tenuto conto della possibilità offerta dal testo di affrontare, attraverso una narrazione sensibile e poetica, alcuni temi- tabù per i giovanissimi: il rapporto con i genitori, la scoperta di sé e dell’amore, la morte.

Spesso ci si trova davanti a ragazzini onnivori in fatto di lettura o, per converso, del tutto refrattari ad essa ma, comunque, sempre poco attrezzati ad apprezzarne il valore e spesso restii ad uscire dal circuito di generi letterari in cui tendono a rinchiudersi: in un certo qual modo- proponendo io il romanzo da leggere- volevo sfidarli ad uscire allo scoperto. In un primo momento avevo dato alla classe la possibilità di una lettura individuale e silenziosa, scandita cioè secondo i tempi di ciascun alunno, in cui mettere in gioco autonomamente quelle competenze di analisi che andavamo affrontando nelle ore di Antologia. Invece, non ho tardato a capire come quello che gli alunni volevano era ascoltare la mia voce che leggeva loro quella storia che si dipanava, piano piano, nelle pagine del testo aperto davanti ai loro occhi. Insomma, la dimensione del “raccontami una storia” ha aperto la possibilità di una comunicazione “altra” più intima, autentica, nonché la possibilità di accedere alla bellezza di una lettura attenta e consapevole.

La lettura corale e la presenza fisica dell’insegnante hanno permesso anche l’affiorare di ricordi, magari non sempre piacevoli, in una dimensione catarchica in grado di scardinare l’immagine che i ragazzi tendono a costruirsi. Interessante è stato anche far capire loro quanto sia difficile scrivere una storia e come la scelta di alcune tecniche narrative, piuttosto che di altre, non sia mai fine a se stessa, perché rivela la concezione del mondo di un autore e spinge a riconoscere ed apprezzare la qualità dello stile.

Al termine dell’analisi affidata a piccoli gruppi, si è aperta la parte più difficile: esporre in prima persona alla classe e ricevere una valutazione. Così ho optato per questa scelta: al termine delle singole presentazioni si apriva lo spazio di una discussione tra i relatori e i compagni in una ricognizione del lavoro che, nelle mie intenzioni, doveva aiutarli a pervenire ad una forma di autovalutazione. Al termine, era mio impegno far confluire i risultati della discussione in una valutazione numerica che- ho la presunzione di dire- finiva per essere accettata perché compresa e condivisa. Posso dire che, in tal modo, la classe ha acquisito non solo una certa attitudine di all’autovalutazione, ma la comprensione che la valutazione non è una sorta di imperscrutabile giudizio “divino” che il docente cala dall’alto.

UN BREVE BILANCIO

Doverosa, dunque, una riflessione su cosa significhi valutare e perché sia strumento tra i più importanti dell’azione didattica. Partendo dal presupposto che la figura del docente rimane centrale nella fase della trasmissione del sapere, anche quella del docente-valutatore si configura come irrinunciabile. Superato per la maggior parte il retaggio del sei politico, la questione permane come anello debole su cui si spendono ore e ore di formazione. Preoccupati, forse troppo, della percezione che il referente del processo valutativo riceve, l’approccio è spesso piuttosto timido. E questo si nota non solo nella pratica quotidiana, molto più nei momenti clou, come per esempio agli esami di maturità, al punto che, talvolta, ci si sente coraggiosi nell’esprimere una valutazione decisamente negativa. Da un punto di vista pedagogico, in realtà, questo è un atto dovuto, dispiegato in una quantità di attività (non solo a scuola) cui si è chiamati ad adempiere. Nonostante si spieghi con chiarezza che ad essere valutata è la prova e non chi l’ha prodotta, il senso di frustrazione che scatena in molti alunni sembra superare di gran lunga il significato della stessa. Certo, in alcuni momenti, è apparso opportuno non sbilanciarsi, come ad esempio durante la pandemia quando l’azione didattica e, con questa, la valutazione si sono ridefinite in un’ottica del tutto nuova. Ma ora il ritorno alla normalità impone nuove scelte. Se si vuole evitare il marchio “generazione Covid” (deleterio per tutte le ragioni psico-pedagogiche da più parti illustrato), le figure chiamate a svolgere questo ruolo (genitori, insegnanti, educatori in genere) devono tornare a valutare: compiti, comportamenti, decisioni. Il rischio, nell’ambito della didattica, è un generale appiattimento poco stimolante per la crescita, nella vita, l’incapacità di operare scelte sensate, perché tanto non se ne vedrebbero le differenze. E la cronaca è costellata di esempi di giovanissimi che attuano comportamenti palesemente scorretti e rischiosi che, o non riconoscono come tali, o non ne comprendono la gravità. Il presupposto è uscire dalla gabbia valutazione = giudizio che imprigiona in una dimensione coercitiva e punitiva; compito questo che spetta agli insegnanti già nelle prime fasi della scolarizzazione, se non prima ai genitori stessi nella vita quotidiana del bambino. La valutazione deve porsi come operativa, funzionale ad un processo di crescita che può rivelarsi tale solo se sganciata dall’idea di giudizio e vissuta come un ausilio per riconoscere, in alcuni casi, anche i propri limiti. E gli adolescenti faticano proprio a porre un limite attivo alle loro aspettative, a fare un passo indietro, a riflettere per ricalibrare il tiro e scoprire altre strade, magari altri desideri per uno sviluppo identitario del profondo.

Gli errori nella valutazione sono possibili; per ovviarvi, un po’ troppo ottimisticamente, si sono approntate griglie di ogni tipo e gusto, sottoponendo la verifica ad una segmentazione di indicatori sempre più capillare per sottrarre il valutatore all’arbitrarietà. Ma, fatta la legge trovato l’inganno. E un uso sagace delle griglie può portare, soprattutto nelle discipline meno “scientifiche”, a risultati contrastanti se non opposti. Forse il problema non è questo: trovare la griglia migliore per evitare errori. Piuttosto, dare un senso attivo alla valutazione, renderla un processo intrinseco all’insegnamento sin dalle prime fasi e aiutare i discenti ad una reale consapevolezza circa le proprie performance e i propri limiti. Il brutto voto non è un fallimento, è un segnale da decifrare che richiede una chiave di lettura che solo l’esperto (in questo caso il docente) può decriptare, sempre che, a monte, si sia stabilita una relazione di fiducia, un patto educativo condiviso. Abolire la valutazione non risolverebbe il problema, lo demanderebbe a luoghi e circostanze più difficili da gestire. Anche proporre verifiche facili e solo marginali rispetto a ciò che si è insegnato può risultare mortificante per chi si aspetta dalla prova il riconoscimento delle competenze acquisite, della capacità di analisi profonda del problema e vorrebbe ricavarne piena soddisfazione per essere giunto fino in fondo, superando difficoltà e limiti. Quando si propongono verifiche semplificate, magari perché gli esaminatori vogliono aiutare gli alunni, non si tiene conto della frustrazione che ne può derivare in chi dall’esame si aspettava la possibilità di mostrare (in primis a sé stesso) le proprie reali competenze in materia.

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