La relazione didattica avviene sempre all’interno di un contesto, il quale viene ad assumere molta rilevanza. Il contesto costituisce non un semplice scenario che fa da sfondo indifferente e amorfo, ma è una componente che esercita un ruolo attivo e pone dei condizionamenti che incidono sulla qualità delle relazioni che al suo interno vi si svolgono. In realtà si dovrebbe parlare di contesti al plurale, dal momento che, come nel caso delle bamboline russe, le matrioske, ogni contesto è incluso in uno più grande, che contribuisce a dargli forma (l’aula, la scuola nella quale si insegna, il sistema nazionale nel quale si opera, il contesto sociale nel quale l’istituzione scolastica è collocata e, infine, sullo sfondo, ma non meno influente, lo scenario culturale nazionale e internazionale). Ne abbiamo parlato nel numero di dicembre di Tuttoscuola.
Il contesto ‘aula’
La più piccola delle matrioske è l’aula. I valori che gli insegnanti professano, le teorie che guidano le loro scelte, i metodi che utilizzano, hanno un punto di verifica inappellabile: il faccia a faccia che ogni mattina si rinnova, quando, dentro le mura dell’aula, si trovano di fronte ai loro alunni. Un film francese, ‘La classe’, premiato al Festival di Cannes del 2008, racconta, quasi a modo di documentario, la grande fatica che fanno gli insegnanti nel tentativo di raggiungere un rapporto accettabile con gli alunni di una scuola media delle periferie di Parigi. Il titolo originale, Entre les murs ci rende fisicamente evidente quale sia il contesto più immediato del lavoro di un insegnante, le mura dell’aula, perimetro entro il quale spesso si trova a lottare faticosamente contro l’analoga fatica dei ragazzi, che disperatamente cercano un senso per il loro essere lì e non altrove, e sfidano il professore perché non conoscono un altro modo per farsi riconoscere e aiutare. Ora, di “classi” così ce ne sono tante.
La scuola vive ogni giorno, in molte situazioni difficili, una trincea nella quale si lotta per sopravvivere o, per dirla con Jacques Delors, per “insegnare a vivere e a convivere”.
Non tutte le realtà, per fortuna, presentano le problematicità di cui ci parla il film, ma, anche in situazioni molto meno difficili da quelle che si incontrano in una banlieue parigina, dentro le mura dell’aula entrano anche bambini e ragazzi con pesanti fardelli di penalizzazione, come ci ricorda Pennac in una memorabile pagina del suo Diario di scuola: «I nostri studenti che vanno male (studenti ritenuti senza avvenire) non vengono mai soli a scuola. In classe entra una cipolla: svariati strati di magone, paura, preoccupazione, rancore, rabbia, desideri insoddisfatti, rinunce furibonde accumulate su un substrato di passato disonorevole, di presente minaccioso, di futuro precluso. la lezione può cominciare solo dopo che hanno posato il fardello e pelato la cipolla… spesso basta solo uno sguardo, una frase benevola...»[1].
Essere capaci di quello sguardo che accoglie e non giudica, che incoraggia e non reprime, richiede qualcosa che va oltre una pur eccellente preparazione professionale. Insegnare non è soltanto una scienza, è molto di più. H. Franta e R. A. Colasanti definiscono tale “di più” arte. Dire che l’insegnamento sia anche arte, e quindi che l’insegnante debba, in qualche modo, essere un artista, non significa fare riferimento a qualcosa di assolutamente originale e raro, un dono che solo a pochi è concesso possedere. Significa, piuttosto, sottolineare come, nella relazione che si instaura all’interno dell’aula, non sia sufficiente essere ‘tecnicamente’ competenti, conoscere la psicologia dell’apprendimento o i metodi didattici più efficaci, ma sia richiesto di padroneggiare l’arte difficile e delicata della relazione interpersonale.
Parlare dell’insegnamento come arte dell’incoraggiamento significa evidenziare come la cura della dimensione relazionale e la strutturazione attenta della situazione di apprendimento, secondo una modalità d’approccio promozionale o incoraggiante, costituiscano fattori proattivi per la riuscita degli alunni. Padroneggiare tale arte significa saper innescare «un processo di cooperazione tra insegnanti e allievi che mira a generare in questi ultimi uno stato d’animo positivo, di coraggio, rispetto alle possibilità di superare le diverse situazioni e raggiungere gli obiettivi preposti… L’esperienza di coraggio si configura come una strutturazione psichica complessa che dispone gli allievi ad agire in senso proattivo. Essa è il risultato di processi cognitivi tramite i quali la situazione da affrontare è valutata come superabile o quantomeno gestibile, valutazione che motiva la ricerca di soluzioni e l’assunzione di responsabilità».[2]
Facilitare non è “farla facile”, ma sfidare
Una delle parole più usate in didattica è facilitazione. Di fronte alle difficoltà che gli alunni presentano affrontando un compito di apprendimento che risulta loro difficile, talvolta l’insegnante interviene cercando di ridurre la complessità della richiesta. Si tratta di un comportamento didattico dettato dal desiderio di aiutare l’alunno a conseguire successo. Bisogna però riflettere sui rischi che un’eccessiva facilitazione comporta, tanto più quando la facilitazione viene rivolta agli alunni che presentano le maggiori difficoltà. Nel tentativo di aiutarli, si rischia di semplificare il compito di apprendimento oltre misura, finendo con il banalizzarlo. La rimozione di ogni ostacolo e la semplificazione del compito al punto da togliere ogni grado di difficoltà non sono buone soluzioni, sono piuttosto azioni di tipo assistenziale, che esonerano l’alunno dalla fatica di impegnarsi e mettersi alla prova. Il corretto modo di intendere la facilitazione consiste non tanto nel rendere facile il compito di apprendimento, quanto nel renderlo significativo, collocandolo ad un livello di difficoltà sostenibile. Individuare il giusto livello di difficoltà consente all’alunno di mettersi alla prova con concrete possibilità di successo, cosa che avrà conseguenze importanti in termini di aumento dell’autostima e della fiducia in sé stesso. Abbiamo approfondito questo tema nel numero di 577 di Tuttoscuola, dove puoi leggere l’articolo nella sua versione integrale.
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[1] D. Pennac, Diario di scuola, Feltrinelli, Milano 2008, p.55.
[2] Cfr: H. Franta,A. R. Colasanti, L’arte dell’incoraggiamento, La Nuova Italia, Firenze 1991.
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