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Ogni anno, in corso d’opera, decine di migliaia di studenti che hanno iniziato il proprio percorso post “licenzia-media” nei licei, decidono di passare ad un istituto tecnico o un professionale.
Spesso si tratta di studenti che “non ce la fanno” e che quindi pensano di andare in una scuola meno impegnativa, dove “si studia di meno”.
Ma è proprio così?
Ne parliamo con Aluisi Tosolini, filosofo dell’educazione e già dirigente di un liceo scientifico e musicale di Parma, e Pievincenzo Di Terlizzi, dirigente di un professionale di Pordenone.
Questa interpretazione – spiegano insieme – oltre che riduttiva rispetto ai casi individuali di disagio e fragilità, oltre che generica (è una spiegazione che può andare bene in tanti altri tempi e contesti) è anche ingenerosa nei confronti delle altre scuole, e pare basarsi implicitamente sul trito e insuperato assunto socioculturale per cui esistano i contesti “di serie A” (Licei) e quelli “di serie B, o C” (Tecnici e Professionali).
Voi avete una chiave di lettura diversa?
Di Terlizzi
Basta allargare lo sguardo eprovare a interrogare chi lavora in scuole che non siano i Licei delle grandi città e ci si rende conto che il tema si ripresenta anche nelle scuole degli altri ordini, ed anche nelle fasce di età minore.
Il tema vero è quello del disagio che è ben presente anche all’Università, come hanno segnalato gli stessi studenti all’apertura dell’anno accademico a Padova, oltre che nei Tecnici e nei Professionali.
Ma anche questa è una semplificazione.
Allora proviamo ad andare un po’ più a fondo…
Tosolini
Prendiamo due documenti usciti quasi contemporaneamente, in questi stessi giorni: il dossier dell’Ufficio scuola della CEI, intitolato “In pieno inverno. Disuguaglianze e fragilità nel sistema educativo” ed il Rapporto Disuguaglianze della Fondazione CARIPLO, sottotitolato “Superare gli ostacoli nell’età della formazione”.
Entrambi mettono il lettore a contatto con la dura e stratificata dimensione delle ragioni del disagio attuale: economiche, sociali, familiari.
E cosa emerge da questi due rapporti?
Tosolini
Nel primo si legge per esempio questa considerazione, basata su uno studio dei comportamenti degli studenti toscani dopo la pandemia: “In chi già viveva una situazione di marcata privazione di opportunità, come nel caso di molti studenti degli istituti professionali, è presumibile che la pandemia abbia indotto cambiamenti meno evidenti che non in chi, invece, prima dell’emergenza poteva contare su risorse tali da consentirgli di coltivare una progettualità futura che adesso rischia di venire meno”.
La questione sembra insomma spostarsi sulle attese per il futuro, sull’idea stessa di futuro possibile da parte degli studenti.
Di Terlizzi
Dal secondo rapporto possiamo cogliere anche un altro elemento. Colpisce, tra le altre, questa osservazione di Valentina Amorese: “Stiamo assistendo ad una crescita delle distanze nelle prospettive di vita delle persone. Questa tendenza contribuisce a costruire e rafforzare un contesto di frammentazione all’interno del Paese”.
Siamo cioè di fronte ad una polverizzazione delle esperienze, con una perdita secca degli spazi (esteriori ed interiori) di socialità.
Tosolini
La frammentazione sociale sembra ormai la chiave di lettura di ciò che sta accadendo oggi: stiamo assistendo ad un inarrestabile aumento delle disuguaglianze come si evince anche da altri due importanti recenti rapporti, il dossier Caritas e il XIII Atlante dell’infanzia a rischio.
E, se poi allarghiamo un po’ l’orizzonte a ciò che accade al di fuori dei nostri confini, dobbiamo prendere atto che la situazione delle nuove generazioni nel pianeta è drammatica: nel mondo 244 milioni di bambini e adolescenti non vanno a scuola, 617 milioni di bambini e adolescenti non sanno leggere e non hanno le competenze matematiche di base e si stima che 147 milioni di bambini abbiano perso più della metà dell’istruzione in classe negli ultimi due anni a causa della chiusura delle scuole causata dalla pandemia COVID-19.
Di Terlizzi
Il dato relativo alle conseguenze dell’emergenza Covid è davvero impressionante: solo il 20% dei Paesi ha intrapreso misure significative per fornire ulteriore salute mentale e supporto psicosociale agli studenti dopo la riapertura delle scuole
Per la verità in Italia supporto psicologico è stato ampiamente attivato in tempo covid e ancora oggi è alla base di molti percorsi pensati entro il PNRR anti dispersione.
In questo caso la domanda deve essere precisa e radicale: il supporto psicologico a che osa serve e deve servire? A rendere sopportabile questa scuola a questi studenti? Quasi un antidepressivo anestetizzante rispetto al disagio imperante.
Sulla conclusione Di Terlizzi e Tosolini non hanno dubbi
Tutte le iniziative anti-dispersione che si stanno realizzando, devono mirare ad un unico obiettivo: cambiare questa scuola per renderla luogo nel quale iniziare a prendere davvero in mano il proprio futuro per costruirlo assieme, diverso.
In caso contrario si renderà un pessimo servizio agli studenti e il disagio non potrà che aumentare.
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