Docenti di sostegno, si chiede loro di essere tuttologi: bisogna puntare ad una maggiore specializzazione non una de-specializzazione. INTERVISTE ai Prof Crispiani e Mancini della Link Campus University

Il docente di sostegno vive un momento storico di grandi attenzioni e, al contempo, vive l’incertezza di enormi mutamenti della sua formazione (in taluni casi, naturalmente) e delle sue competenze. Problemi complessi richiedono risposte complesse. Afferma il prof. Piero Crispiani, docente, tra l’altro, anche alla Link Campus University di Roma, che “alla richiesta di maggiore specializzazione si è risposto con la de-specializzazione dei docenti di sostegno. In totale controtendenza a quanto avviene nelle organizzazioni produttive o di servizi, i Sostegni sono stati de-specializzati. Là dove il Sostegno comunicava anche in LIS, ora il Sostegno fa didattica ma un altro (il mediatore o chi per lui) parla con l’alunno. Dove uno, ora due e, in certi casi anche tre (assistenti, tutor, ecc.)”. “Ci sono docenti di sostegno – afferma il prof. Riccardo Mancini della Link Campus University di Roma – che compensano la mancanza di specialità sulle sindromi con il buon senso, l’impegno, il confronto con gli altri, lo studio, ecc. Ma c’è una situazione che mette veramente alle corde sia il docente che il sistema e riguarda, principalmente, nella secondaria di II grado i casi di disturbo mentale, comportamentale, di personalità, ovvero i cosiddetti “psichici”. E a loro ci siamo rivolti ponendo, in primis, una domanda che è tutt’altro che banale: “Il docente di sostegno è un tuttologo?”.

Ci sono diverse modalità, o se vogliamo diversi piani di ragionamento, per analizzare e considerare il profilo dell’insegnante di sostegno: Professore Crispiani, ha senso discutere della posizione del Sostegno?

«Ci sono diverse modalità, o se vogliamo diversi piani di ragionamento, per analizzare e considerare il profilo, le competenze e la condizione personale dei docenti di sostegno odierni in Italia. Da un lato la comprensione di una posizione di sicura minorità nel mondo, nel senso di essere inclusi nelle scuole comuni, alla stessa maniera dell’allievo disabile, il che è fonte di difficoltà, impegno, ecc. Ma il ragionamento deve erodere le criticità o le debolezze del servizio, poiché in tempo di ricerca dell’efficienza, questa è la prospettiva».

Il ruolo dell’insegnante di sostegno ha una storia lunga diversi decenni nella scuola italiana. Infatti, mentre prendevano avvio le politiche di integrazione scolastica, con la legge 517/1977, veniva introdotta e si affermava in tutta la sua importanza, almeno inizialmente, la figura dell’insegnante di sostegno. Si trattava, al momento della sua nascita, di una risorsa per quelle classi che avevano una presenza di un alunno con disabilità. Secondo la Legge Quadro 104/1992, questo insegnante è completamente contitolare. Professore Riccardo Mancini da dove partiamo?

«Partiamo dalla storia, da quando dopo la Legge 517/1977 un Decreto (il 970) istituì la figura del Sostegno ed il relativo organico. E furono tre: Psicofisici, Vista e Udito. Gli Psicofisici navigavano a vista, però le tipologie di disabilità erano meno declinate, insomma ritardati gravi, cerebrolesi, menomati, Down e poco altro. Invece gli altri due erano competenti, nel senso che quelli della vista conoscevano tutti il braille e la psicopatologia del minorato della vista. Quelli dell’Udito conoscevano tutti la LIS e la psicopatologia del minorato dell’udito, anzi molti di questi ultimi provenivano dai “Centri audiofoniatrici” quindi la sapevano lunga».

Cosa è accaduto dopo, professore Piero Crispiani?

«Poi sono avvenute alcune cose:

  • La disabilità è esplosa per quantità e qualità ed ha dilatato le presenze anche alle Superiori ed all’Università, dunque un incremento di difficoltà e di competenze richieste.
  • Tutto il sistema scolastico si è complessificato.
  • Si sono affermate tipologie di disabilità (e talvolta di sola “diversità funzionale” ma passati per disabili): disprassici-dislessici, disturbi dello sviluppo, autismo e Spettro, patologie rare, deprivati, disadattati, disturbi del neurosviluppo, ecc.
  • La figura del Sostegno è stata unificata nella sola ed unica specializzazione».

A differenza di quanto accadeva e accade negli altri Paesi europei, la nostra nazione ha preferito spingere per una formazione degli insegnanti di sostegno non del tutto specialistica. Ciò vuol dire che essa prevede, ormai da decenni, nel bene e peggio nel male, una formazione troppo generale (meglio generalizzata) che prepara sì alle politiche educative e formative e alle pratiche di inclusione, ma approfondisce pochissimo le singole disabilità. L’inserimento di alunni con disabilità riproponeva prepotente il tema della formazione dei docenti che così concepita veniva ad essere insufficiente riguardo a quel profondo mutamento sociale che il fenomeno inclusivo e le politiche dell’inclusione introduceva nel nostro sistema scolastico. Per questa ragione, si cercò di progettare una formazione per gli insegnanti di sostegno differente. Oggi, però, Professore Riccardo Mancini, qual è il problema?

«Problemi complessi richiedono risposte complesse. Alla richiesta di maggiore specializzazione si è risposto con la de-specializzazione dei docenti di sostegno. In totale controtendenza a quanto avviene nelle organizzazioni produttive o di servizi, i Sostegni sono stati de-specializzati. Là dove il Sostegno comunicava anche in LIS, ora il Sostegno fa didattica ma un altro (il mediatore o chi per lui) parla con l’alunno. Dove uno, ora due e, in certi casi anche tre (assistenti, tutor, ecc.). Accadrebbe in una azienda privata o in un Servizio gestito con razionalità ed efficacia? Là gli operatori si specializzano (a volte anche troppo – iperspecialisti, direbbe E. Morin). Qua … si de-specializzano, sono sostegni senza conoscere le sindromi, le loro diversità, i codici comunicativi, le psicopatologie, ecc. Specialisti di tutto… ovvero del nulla. Ciò al di là dell’impegno delle persone, delle convergenze di risorse, della dedizione dei docenti».

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