Draghi e le dimissioni, il premier è irremovibile: non si può vivacchiare. La tensione tra i ministri

di Monica GuerzoniÈ l’ultimo consiglio dei ministri, o almeno così spera in cuor suo il supertecnico chiamato 17 mesi fa da Mattarella, per formare «un governo di alto profilo» dopo la traumatica fine di Conte Finisce con un lungo applauso e con Mario Draghi che dietro alla serenità apparente tradisce commozione, delusione e la ferma, sofferta determinazione a lasciare. È l’ultimo consiglio dei ministri, o almeno così spera in cuor suo il supertecnico chiamato 17 mesi fa da Mattarella, per formare «un governo di alto profilo» dopo la traumatica fine di Conte. È proprio l’avvocato pugliese adesso l’artefice della crisi, il nome che a Palazzo Chigi nessuno si azzarda a pronunciare in presenza del premier. Per Draghi la partita è finita, i «tempi supplementari» evocati da Giorgetti non ci sono. E anche se davanti al capo dello Stato, per rispetto e galateo istituzionale, non ha scelto la formula definitiva delle dimissioni «irrevocabili», chi lo conosce sa che non è solito tornare sui suoi passi. Come si può ripartire, se il «patto di fiducia» è venuto meno? E chi può garantire che dopo il presidente dei 5 Stelle, non sarà il leader della Lega a minacciare e strappare? C’è silenzio, tensione e imbarazzo quando il capo del governo apre la riunione del Cdm e gela le speranze dei ministri più leali: «Voglio annunciarvi che questa sera rassegnerò le mie dimissioni nelle mani del presidente della Repubblica». Parole che aprono la crisi e precipitano l’Italia nell’incertezza: «La maggioranza di unità nazionale non c’è più. È venuto meno il patto di fiducia alla base dell’azione di governo». Non nomina Conte, né i 5 Stelle. Rivendica di averci messo «il massimo impegno per proseguire nel cammino comune», nonostante le pressioni, gli ultimatum, i ricatti delle forze politiche. Lui preferisce dire «esigenze», ma il senso è quello. È il «ne ho piene le tasche» confidato a Tajani nelle ore della lettera-sfida di Conte, è la consapevolezza che la coalizione di unità nazionale è andata in pezzi e incollare i cocci non sarà possibile. La compattezza è stata «fondamentale» per affrontare le emergenze della pandemia, della guerra, dell’inflazione che morde i salari, ma «queste condizioni oggi non ci sono più». La maggioranza non c’è più. Poi il grazie a tutti «per i tanti risultati conseguiti» nonostante il governo «non sia durato molto» e la raccomandazione di uscirne a testa alta: «Dobbiamo essere orgogliosi di quello che abbiamo raggiunto, in un momento molto difficile, nell’interesse di tutti gli italiani». Infine, qualche parola di «stima e di affetto» per i ministri che hanno vissuto con lui questa esperienza «breve e intensa». Ed è qui che scatta l’applauso, è qui che Andrea Orlando prende la parola e azzarda: «Presidente, il quadro di grande incertezza di questa fase, anche sul piano internazionale, rischia di compromettere il grande lavoro che abbiamo fatto. Se c’è spazio per un ripensamento io credo che lei lo dovrebbe considerare…». Draghi tace. Tacciono tutti. Finché Roberto Cingolani rompe il silenzio e sfida il ministro dem: «Parli tu, che sei del Pd e hai fatto il gioco di Conte». Tensione alta, ma la scintilla subito si spegne nel silenzio generale. A Draghi scappa persino una battuta su Giorgetti, che ha portato dei francobolli celebrativi: «Un giorno ne stamperanno uno su di te». Poi si prepara per tornare al Colle, questa volta per le dimissioni. Quando scende dal Quirinale, l’impressione che lascia è che uno spiraglio ci sia ancora. Uno spazio magari «piccolo», che col passar delle ore però diventerà «minimo». A Palazzo Chigi, dove al mattino Draghi ha seguito con il suo staff il dibattito nell’Aula del Senato, non sfugge come l’appello a restare parta soprattutto dal Pd, che si muove in asse con il Colle. «Per portare avanti le grandi sfide che abbiamo davanti serve unità — è il ragionamento di Draghi — E questa unità non c’è. Il rapporto fiduciario è venuto meno e stare al governo per vivacchiare non avrebbe alcun senso». E c’è un’altra ragione che spingerebbe Draghi a mantenere il gran rifiuto. Ed è la convinzione che a quasi 75 anni e dopo una lunga carriera costellata di successi internazionali, non si può restare a Palazzo Chigi per farsi logorare dalle ambizioni elettorali dei partiti. Anche così si misura la distanza dalla diversa impostazione del Quirinale, dove si sperava di convincerlo a tornare alle Camere per un dibattito parlamentare e un nuovo voto su una risoluzione. In cinque giorni tutto può ancora succedere, «tranne che Draghi ci ripensi». Questo dicono i collaboratori più fidati, che hanno visto il presidente chiudersi a lungo nel suo studio per riflettere. Tra il primo e il secondo colloquio con Mattarella, è la ricostruzione di un ministro, «Draghi ha dovuto combattere tra il dolore per l’ingiustizia subita e il senso di responsabilità verso il Paese». Mercoledì dovrà spiegarlo agli italiani e non è escluso che vorrà togliersi, pur con il suo stile british, qualche pietruzza dalle scarpe. Un j’accuse verso chi ha deciso di trascinare il Paese al voto, «nel momento più difficile dal Dopoguerra». 15 luglio 2022 (modifica il 15 luglio 2022 | 09:49) © RIPRODUZIONE RISERVATA , 2022-07-15 07:49:00, È l’ultimo consiglio dei ministri, o almeno così spera in cuor suo il supertecnico chiamato 17 mesi fa da Mattarella, per formare «un governo di alto profilo» dopo la traumatica fine di Conte, Monica Guerzoni

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