Inviato da Silvia Pennacchi – Leggo con un sorriso e una punta di irritazione la proposta di alcuni esponenti politici di introdurre l’educazione affettiva nelle scuole, per prevenire e contrastare gli episodi di violenza sulle donne, alla luce della tragica fine di Giulia Cecchettin.
Lungi dal fare una celebrazione del nostro sistema scolastico, mi preme tuttavia ricordare a chi non se ne fosse ancora accorto, che a scuola educazione si fa ogni giorno, in tutte le forme in cui si può declinare tale parola. A partire spesso dalle regole basilari di convivenza e rispetto degli ambienti e delle persone che, in realtà, dovrebbero essere già acquisite prima di iniziare il percorso scolastico.
Vorrei far presente a chi non lo sa, che già da qualche anno in tutti i gradi scolastici è stato introdotto un minimo di 33 ore annuali di educazione civica e che, da quello in corso, nelle scuole secondarie sono obbligatorie 30 ore annuali di orientamento per ogni classe, al fine di guidare gli studenti nel loro percorso di crescita personale. Aggiungo che in tutti gli istituti esiste un protocollo e un referente per la prevenzione e il contrasto del bullismo e del cyberbullismo e che in molte scuole è presente stabilmente uno psicologo a disposizione dei ragazzi in difficoltà. Per non parlare dei numerosi progetti e delle ore dedicate da ogni docente nella propria disciplina per sensibilizzare i giovani verso le tematiche sociali più attuali, tra cui anche la violenza di genere. Ci tengo inoltre a sottolineare che la scuola è forse l’unico luogo dove si realizzano concretamente l’inclusione e l’accoglienza, pur con i limiti imposti dai mezzi, dalle risorse e dalle strutture.
A fronte di tutto questo impegno quotidiano, spesso al prezzo di ore sottratte alla ormai svalutata didattica, quali sono i risultati? La risposta si può trovare facilmente nei fatti di cronaca di tutti i giorni, con protagonisti sempre più giovani e adolescenti che in questa scuola, imperfetta e migliorabile, hanno passato molto tempo.
A mio modestissimo avviso, quello a cui la scuola e le famiglie non educano più, purtroppo, non è l’affettività, ma l’impegno, l’insuccesso, le delusioni. A forza di focalizzarsi esclusivamente sul “successo formativo” (bella parola questa, vero?) e sul benessere personale, di temere i voti, di demonizzare le bocciature, di abusare di diagnosi cliniche spesso discutibili, abbiamo tolto ai giovani la consapevolezza dei propri limiti, abbiamo dato loro l’illusione di una vita in discesa, in cui ottenere la massima resa con il minimo sforzo. Quando poi si trovano inevitabilmente davanti alla realtà, fatta anche di salite, di buche, di sterrati, di tornanti, ecco che la frustrazione che non hanno imparato a gestire prima, perché cullati da genitori iperprotettivi e da un sistema scolastico permissivistico e scarsamente meritocratico (il merito, che brutta parola!), prende il sopravvento e sfocia nei modi più inattesi, talvolta anche drammatici.
Quando c’è un’emergenza sociale, si ricorre alla retorica della necessità dell’educazione specifica su quell’argomento che spesso già si fa, senza chiedersi se il vero intervento non debba risiedere altrove.
Per concludere, sono certa che la scuola si farà carico anche di questa ennesima richiesta, come sempre. Tuttavia, nell’attesa che il provvedimento abbia l’effetto sperato, chi ne ha la responsabilità si preoccupi di proteggere più efficacemente i cittadini, in particolare le donne.
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