Cosa sta succedendo ai nostri giovani? Dove nasce questo disagio costante e l’aggressività? Ne abbiamo parlato con il Professor Stefano Vicari, Professore Ordinario di Neuropsichiatria Infantile presso la facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma e Responsabile dell’Unità Operativa Complessa di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza, dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma.
Professor Vicari, i fatti di cronaca evidenziano un malessere di fondo nei nostri giovani che spesso sfocia in atti di violenza verso sé stessi oppure verso gli altri. Lei da tempo ha lanciato l’allarme su questo profondo disagio, ci dice a che punto siamo e se si sta facendo qualcosa di concreto per aiutare questi ragazzi?
Effettivamente si tratta, a mio avviso, di una vera e propria emergenza, nel senso che i casi di richiesta di aiuto per episodi di autolesionismo, come diceva anche lei nella domanda, ovvero dei ragazzi che si fanno del male volontariamente, che danneggiano il proprio corpo, sono in netto aumento. Lei però faceva riferimento anche ad episodi di cronaca e a tal proposito forse vale la pena sottolineare che non tutti gli episodi di violenza sono riconducibili ad un disturbo mentale, cioè non tutte le persone che manifestano aggressività e violenza hanno necessariamente di base un disturbo mentale che spiega questo atto di violenza, altrimenti tenderemmo a medicalizzare ogni comportamento e questo sarebbe ovviamente sbagliato.
Tra l’altro forse non tutti sanno che le persone che hanno un disturbo mentale non sono più violente per natura di persone che non hanno tale disturbo, in altre parole gli episodi di violenza sono pressoché gli stessi sia tra le persone che hanno un disturbo mentale che tra quelle che non lo hanno, questo è un dato che ci porta a smontare quel luogo comune che ci tende ad associare l’atto di violenza con un atteggiamento legato al disturbo mentale. Questi sono stereotipi non sempre veri, anzi per lo più non veri, perché non sempre chi commette un atto di violenza ha un disturbo mentale alla base. Detto questo, lei mi chiedeva anche che cosa stiamo facendo, a tal proposito devo dire non molto, purtroppo.
L’attenzione ai disturbi mentali nei minori, cioè nei ragazzi fino ai 18 anni, è ancora piuttosto limitata e scarsa. Sebbene la psichiatria degli adulti viva momenti di grande difficoltà, non c’è dubbio che ci siano molte più risorse sui territori del nostro paese per la psichiatria dell’età adulta che non per quella dell’età evolutiva. Ovviamente non vuole essere una guerra tra poveri questa, non è che io stia invocando di togliere le risorse alla psichiatria dell’età adulta, sto dicendo però che se fossimo tutti consapevoli che i disturbi mentali in realtà iniziano nella grande maggioranza dei casi nell’età evolutiva, cioè da bambini e adolescenti, dovremmo essere molto più attenti a cogliere gli esordi, cioè il momento in cui poi iniziano questi disturbi e non aspettare che cronicizzino, cioè che diventino ormai difficilmente trattabili in età adulta.
I servizi sul territorio sono molto scarsi, soprattutto i servizi di primo incontro, cioè quelli che sono nelle ASL, ovvero gli ambulatori del neuropsichiatra che è in grado di riconoscere immediatamente se c’è qualcosa che non va. Poi però mancano anche le strutture per acuzie, cioè quando c’è un episodio grave, drammatico, che richiede un ricovero in ospedale, e ancora di più per il postacuzie, cioè strutture dedicate al momento successivo al ricovero, magari per i ragazzi che non possono tornare subito in famiglia e che hanno bisogno di essere accolti in strutture per un periodo più prolungato, quelli sono davvero in forte carenza. Ci sarebbe bisogno di una politica che si occupi della salute dei ragazzi, che promuova salute mentale, e quando c’è un disturbo la politica dovrebbe essere in grado di dare risposte per la cura di questi disturbi mentali.
Attualmente uno dei temi più ricorrenti è l’introduzione dell’educazione emozionale a scuola, l’approccio che si vuole seguire è quello di estrapolare questo ambito dalla complessità della realtà, seconde lei è corretta questa interpretazione oppure stiamo commettendo un errore pensando all’educazione emotiva senza tenere conto che essa si realizza all’interno delle relazioni quotidiane con gli altri e in tutti i contesti che viviamo?
Do una mia opinione anche se non sono né un pedagogista né uno psicologo, mi occupo dei disturbi mentali, ma la mia impressione è che stiamo settorizzando l’educazione, cioè come se ci fosse un’educazione che passa per relazioni affettive e non passa per il rispetto dell’altro, ad esempio. Ritengo che non possiamo caricare la scuola di tutto ciò che i genitori non riescono a fare e lo dico non per caricare di responsabilità eccessive i genitori, però essere genitori vuol dire questo sostanzialmente, educare, fornire delle regole, degli stili di vita e di comportamento, se questo non c’è è difficile che la scuola possa supplire ad una carenza così importante e così grave.
Credo che dovremmo fare attenzione all’educazione in senso lato dei nostri giovani, che sia affettiva, sentimentale, di rispetto dell’altro e che a questo noi dovremmo dedicare non uno spazio, ma l’intera vita della coppia genitoriale e così anche della scuola. Credo che esista l’educazione, quindi l’educazione al rispetto dell’altro ed al rispetto di sé stessi, all’autostima, alle autonomie e questa educazione deve essere il compito principale dei genitori.
Anche la famiglia ha grosse difficoltà ad educare i ragazzi di oggi, l’assenza dei genitori, spesso perché entrambi al lavoro, comporta la perdita di punti di riferimento nelle varie fasi evolutive. Allo stesso tempo il digitale sta entrando sempre più nella sfera educativa familiare, spesso con la veste di babysitter digitale. Quanto è pericoloso questo aspetto e quali sono le conseguenze che dobbiamo attenderci?
Devo dire che ha messo il dito su una piaga ancora sanguinante, diciamo così, che poi è la lettura che la comunità dei neuropsichiatri e degli psicologi dà del grande aumento delle richieste di aiuto dei bambini e degli adolescenti. Dobbiamo chiederci perché sono così tanti i ragazzi che stanno male, è molto probabile che alla base ci siano dei modelli educativi che segnano il passo, lo dicevamo poco fa, ma c’è anche la diffusione enorme delle dipendenze, parliamo di vecchie dipendenze come quelle da sostanze, per le quali i ragazzi cominciano sempre più precocemente a farne uso, già a partire dai 12/13 anni e a volte addirittura prima, e poi ci sono le nuove dipendenze, ovvero le dipendenze dai device, dagli strumenti elettronici, e dai social, ovvero dalla connessione ad internet.
Questo è un pericolo troppo spesso sottovalutato, i bambini trascorrono fino a 6 ore al giorno utilizzando un device, immagini che effettuo può avere questo su un cervello in trasformazione, anche perché sono ore tolte a fare altro, quindi non è dannoso solo perché quelle ore sono prese da un’attività molto limitante in termini di creatività, ma anche perché sono ore che vengono tolte all’attività fisica, al disegno, alla lettura, cioè a tutte quelle attività che possono stimolare maggiormente la crescita del nostro cervello.
I genitori dovrebbero porre massima attenzione nel fornire questi strumenti, ma anche educare all’uso responsabile di questi strumenti, perché un altro aspetto negativo, spesso associato all’uso di device, è che vengono utilizzati fino a tarda notte dai bambini e dai ragazzi, portando come conseguenza una deprivazione del sonno, cioè dormono molto meno di quanto dovrebbero dormire, e ne consegue che la mattina fanno fatica ad alzarsi e ad andare a scuola.
Dormire poco è uno dei fattori principali di rischio delle malattie mentali, questo comporta che si aggiungono fattori di rischio a fattori di rischio e questo è un aspetto su cui forse i genitori pongono ancora troppa poca attenzione, anche se in buona fede probabilmente perché non sono consapevoli. Per questo ne dobbiamo parlare, non dico per lanciare un grido di allarme, ma per richiamare i genitori ad un’attenzione rispetto a strumenti che possono essere vissuti come innocui ma sono di per sé particolarmente rischiosi o per lo meno nascondono insidie importanti.
Un’ultima domanda, abbiamo parlato di come famiglia e scuola abbiano bisogno di rivedere e ripensare l’educazione affettiva. Un esempio su tutti può essere rappresentato dall’ansia da prestazione sempre più presente nei vari ambiti, sia per una prova scolastica, per una sportiva, per un’esibizione musicale e via dicendo. Quando abbiamo smesso di pensare che i bambini devono innanzitutto divertirsi?
È esattamente questo il punto, cioè noi dovremmo preoccuparci di trasmettere il piacere di fare le cose e non tanto il dovere di fare le cose. Questo non vuol dire che non dobbiamo fare le cose per dovere, per carità, non voglio far passare questo messaggio, però la scuola dovrebbe essere il luogo dove i bambini imparano il piacere della conoscenza e invece, anche qui non per responsabilità degli insegnanti ma per il modello che ci siamo dati, la scuola è sempre più vissuta come dimostrazione di risultati, di competenze.
Del resto, ormai lo dico da un po’ di tempo, lo abbiamo voluto richiamare anche nel nome del Ministero chiamandolo Ministero dell’Istruzione e del Merito, associando questo aspetto che è molto legato alla prestazione. Non che il merito non sia importante, anche qui per carità, ma una cosa è il criterio di selezione mentre la scuola deve essere per tutti, lo diceva anche Don Milani, e lo ricordiamo quest’anno nel centesimo anniversario della sua nascita, che poi è già un principio sancito dalla Costituzione. Poi i più meritevoli devono avere tutti gli strumenti per poter proseguire negli studi, su questo non c’è dubbio, ma la scuola deve essere per tutti, la scuola deve essere basata sulla possibilità di scoprire il piacere di sapere delle conoscenze, invece noi ne abbiamo fatto soprattutto il luogo dove trasmettiamo delle competenze.
Pensi a tutto il grande capitolo tra scuola e lavoro, e anche qui, secondo me, c’è un equivoco, la scuola non è il luogo dove costruiamo i futuri “disoccupati” di domani, ma è un luogo dove costruiamo dei cittadini che hanno il piacere di sapere e conoscere, di informarsi, di approfondire i temi della conoscenza. Così in famiglia, la relazione non deve essere un obbligo, non deve essere vissuta come un dovere, ma nella relazione ci deve essere innanzitutto il piacere di stare con i propri figli e allo stesso tempo dei figli di stare con i propri genitori.
Quando invece incontro delle mamme e dei papà mi capita spesso che mi dicano che se avessero immaginato che sarebbe stato così difficili, addirittura qualcuno dice fastidioso, avere un bambino dentro casa non l’avrebbero fatto. Forse in questa società che viviamo basata sui consumi, viviamo come consumo anche le relazioni. Finché in fondo sono piacevoli e ci danno anche una visibilità sociale di un certo tipo le sposiamo e quando ci stanchiamo saremmo pronti ad abbandonarle. I figli servono a volte più a noi per pavoneggiarci nel nostro ruolo di genitori che non nell’assumerci delle responsabilità nel crescerli, nel farli delle persone felici.
Qui il discorso si amplierebbe molto, ma vorrei limitarmi ad aggiungere il tema che noi genitori dobbiamo accettare il fatto che diventiamo vecchi, che diventiamo anziani, e che quindi le nuove generazioni ci devono superare. Ci supereranno per ovvi motivi, ma ci devono superare già quando sono giovanissimi, ed è già difficile perché il nostro non è un paese per giovani, è un paese per vecchi. I ragazzi non hanno spazi per affermare la loro volontà e così spesso sono a rimorchio degli adulti, che siano genitori o insegnanti.
Dicevo che noi genitori dobbiamo accettare la possibilità di diventare vecchi, a tal proposito dico sempre che tremo quando vendo entrare nel mio ambulatorio madre e figlia vestite allo stesso modo, con gli stessi tatuaggi, ovviamente questo è un modo per banalizzare il discorso, non me ne vogliate, però vuol dire anche che non consentiamo ai nostri figli di differenziarsi da noi. Se ogni trasgressione che loro commettono la recepiamo subito ed anzi la facciamo nostra, noi limitiamo lo spazio di espressione dei nostri figli. Ricordo una ragazza che mi confidò di non farcela più a sentire la madre che gli raccontava di tutti i suoi fidanzati, ecco oggi i genitori vivono il rapporto con i figli come se fosse un rapporto amicale.
I genitori non sono gli amici dei loro figli, il che non vuol dire che li devono trattare male, ma vuol dire che hanno delle responsabilità di adulti, non è la stessa cosa. I figli non hanno gli stessi strumenti che dovrebbe avere un adulto, i genitori sono altro, sono anche l’autorità, me lo lasci dire nel modo più crudo, nei confronti della quale i figli devono scontrarsi e sconfiggere, in qualche modo, se vogliono capire chi sono. Se noi annacquiamo tutto questo e facciamo diventare tutto mellifluo in qualche maniera, i ragazzi fanno più fatica a capire chi sono, cosa sono di diverso rispetto a mamma e papà, perché sono diversi da noi e devono trovare la loro vocazione. Il ruolo di noi genitori è quello di aiutarli a trovare questa vocazione e non a realizzare quello che noi vogliamo che facciano.
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Autore dell’articolo Fabio Gervasio