Elif Shafak: «Una guerra emotivaLa Russia si finge vittima ma poi aggredisce»

di Luigi Ippolito, corrispondente da LondraLa scrittrice anglo-turca già nel mirino di Erdogan: da Putin narrativa tossica che distorce la realtà, così l’isolazionismo si trasforma in espansionismo Lei ha vissuto sulla sua pelle l’involuzione autoritaria della Turchia: la scrittrice Elif Shafak, autrice de La bastarda di Istanbul e di tanti altri romanzi e saggi di successo, è stata messa sotto accusa in passato dal regime di Erdogan e ormai vive a Londra da molti anni, avendo acquisito la cittadinanza britannica. Politicamente impegnata da sempre a favore dei diritti umani, la sua prospettiva offre uno sguardo privilegiato per analizzare la parabola recente della Russia, sfociata nell’aggressione all’Ucraina. C’è una traiettoria simile che si può discernere nei Paesi autoritari, che siano la Turchia, la Russia o altri ancora? «L’autoritarismo è qualcosa di molto pericoloso e in ultima analisi porta a due cose: o all’isolamento o all’espansionismo e all’aggressione. Nel primo caso c’è questa percezione di essere differenti, di essere circondati da nemici, di non potersi fidare di nessuno: una sorta di paranoia; nel secondo caso c’è nostalgia per un impero perduto. Trovo la nostalgia imperiale una cosa molto pericolosa, perché al suo cuore c’è una memoria selettiva: crede che il passato fosse solo pieno di grandezza, come un’età dell’oro che è stata portata via dagli altri e che occorre riprendersi. È la narrativa che la Russia sta usando ora: e non è una narrativa innocente». In Russia l’isolazionismo e l’espansionismo si nutrono a vicenda. «Sì, è così, non sono esclusivi l’uno dell’altro. Un regime autoritario può costruire l’isolamento: e la narrativa sarà che non hanno bisogno della democrazia perché non gli appartiene, sono una civiltà diversa. Dunque costruisci questo isolazionismo che poi si rovescia in espansionismo». La narrativa dell’isolamento e della diversità alimenta l’idea della minaccia esterna: e dunque l’espansionismo è presentato come qualcosa di difensivo. «Esattamente: il paradosso è che in questa narrativa l’aggressività è presentata come risultato dell’essere vittima di ingiustizia. Non c’è solo una sistematica propaganda e disinformazione, ma anche una distorsione della narrativa, la costruzione di una nuova narrativa basata sul vittimismo. Lo fanno specialmente gli imperi, quando dicono di essere un grande impero che si è ristretto perché i loro territori gli sono stati sottratti. Questa narrativa è tossica e distorce la realtà». Sembra incredibile che nel XXI secolo ci si debba trovare a fronteggiare nostalgie imperiali nel cuore dell’Europa. «Questa è una guerra della memoria. Ci era stato detto che l’Ottocento e il Novecento erano finiti e che le prossime guerre sarebbero state informatiche e tecnologiche: ma quello che sta accadendo adesso è una guerra ottocentesca, sul terreno, mirata contro i civili ma basata sulle memorie di un passato d’oro. La memoria qui è la parola chiave. Ed è una guerra molto emotiva: Putin è sempre stato presentato come razionale e calcolatore, un classico uomo del Kgb senza emozioni, ma in realtà questa è una guerra emotiva. Putin gioca sulle emozioni della gente e si basa sulle emozioni: se non comprendiamo il passato non possiamo comprendere ciò che sta accadendo oggi. E quando dico il passato intendo l’interpretazione del passato, la sua riscrittura: se chiediamo agli ucraini cos’era il passato ci racconteranno una storia diversa. Quella di Putin è una interpretazione selettiva e filtrata del passato: ma gli autocrati si basano su questo». C’è speranza per la Russia o è condannata all’autocrazia? «I regimi autoritari cercano sempre di dare l’impressione di essere un blocco omogeneo, ma non lo sono mai. Anche se il regime di Putin cerca di soffocare ogni opposizione, ci sono giovani in Russia che non vogliono questa guerra e protestano per strada, ci sono anziani che hanno visto la Seconda guerra mondiale e che pure protestano. L’autoritarismo non funziona nel lungo periodo: anche se al momento sono pessimista, nel senso che dobbiamo renderci conto che la democrazia è fragile e che l’Occidente è stato diviso al suo interno». Questa guerra è una sveglia per l’Occidente? «Lo è per il mondo intero. Credo nell’umanesimo e metto l’enfasi sulla connessione umanitaria: nel mondo la gente che crede nella democrazia e nel pluralismo deve alzare la voce, ci deve essere una solidarietà globale. Anche nel mondo occidentale la democrazia non è compiuta: è molto più fragile di quanto riteniamo, è un ecosistema molto delicato di pesi e contrappesi, deve essere nutrita, non può essere considerata come garantita. Dobbiamo costruire una democrazia pluralista e inclusiva che rispetta le diversità: è la cosa più difficile, ma è la via che ci porta avanti». S embrava che non dovesse esserci più posto nell’Europa contemporanea per un conflitto come quello a cui stiamo assistendo. «C’era troppo ottimismo, specialmente alla fine del secolo scorso: poiché il Muro di Berlino era crollato e l’Urss si era dissolta, c’era l’aspettativa che l’unica via rimasta fosse la liberaldemocrazia e che grazie alla tecnologia la democrazia si sarebbe diffusa dovunque. Un grande errore è stato porre troppo ottimismo nell’informazione: ma in realtà informazione non è conoscenza e questa non è saggezza. Sono tre cose molto diverse: troppa informazione ci rende stanchi e aggiunge pure tanta disinformazione. Quindi come otteniamo una vera conoscenza? Abbiamo bisogno di libri, di giornalismo investigativo, non di social media. Ma anche di conversazioni fatte di sfumature: anche se sembra non esserci tempo per questo. Mentre la saggezza richiede intelligenza emotiva». 28 marzo 2022 (modifica il 28 marzo 2022 | 22:24) © RIPRODUZIONE RISERVATA , 2022-03-28 20:18:00, La scrittrice anglo-turca già nel mirino di Erdogan: da Putin narrativa tossica che distorce la realtà, così l’isolazionismo si trasforma in espansionismo, Luigi Ippolito

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