Tutto il caso Emanuela Orlandi: dalla scomparsa alla docuserie Netflix «Vatican girl»

di Fabrizio Peronaci

Emanuela Orlandi, 15 anni, cittadina vaticana, sparì il 22 giugno 1983. Due inchieste giudiziarie – per un totale di 11 indagati, tutti via via prosciolti – non sono bastate a fare luce su uno dei casi irrisolti più noti della storia italiana. L’intreccio con gli scandali dello Ior e i veleni contro papa Wojtyla

È il cold case numero uno, il giallo irrisolto per eccellenza: quello della «ragazza con la fascetta». Un intrigo a metà strada tra cronaca e storia, che per anni ha chiamato in causa cancellerie dell’Ovest e dell’Est, ambienti religiosi, barbe finte, e tuttora continua a inquietare. Un mistero mai svelato perché – su questo concordano generazioni di investigatori, criminologi, giornalisti, persino qualche ecclesiastico, a condizione di parlare off the record – la verità celata è scomoda. Che fine ha fatto Emanuela Orlandi? In quale buco nero senza fondo fu spinta la ragazzina di 15 anni, cittadina vaticana, figlia di un commesso pontificio fedele servitore di Karol Wojtyla , dopo essere uscita dalla scuola di musica (flauto e canto corale) quel dannato mercoledì 22 giugno 1983? Quando ormai mancano pochi mesi alla scadenza dei 40 anni senza giustizia, che per la famiglia Orlandi equivalgono a una condanna non meno atroce del carcere («l’ergastolo dell’attesa», l’ha ribattezzata il fratello Pietro, mai rassegnato), ci ha pensato la docuserie «Vatican girl» (su Netflix) a riaccendere i riflettori sull’enigma.

Terrorismo internazionale, ricatto economico , scontro tra fazioni pro e contro il primo Papa nato oltrecortina, festini e abusi sessuali all’ombra del Cupolone… Dove guardare? Da quel terribile 1983 i cui eventi, dentro le Sacre Mura, vanno letti in sequenza con quanto avvenuto nel 1982 (la morte del «banchiere di Dio» Roberto Calvi, a Londra) e nel 1981 (il fallito attentato del turco Ali Agca), il caso Orlandi è sempre tornato ciclicamente nelle cronache. Segno che la ragazza dei manifesti è entrata nel cuore di tutti e che l’opinione pubblica avverte il bisogno di sapere, di scrollarsi di dosso una pagina tanto oscura. E allora eccoli, sgranando un lungo rosario di rabbia e dolore, tutti i protagonisti e i retroscena.

L’ultima telefonata, la sparizione e i due agenti dei servizi segreti

Il giallo Orlandi inizia il 22 giugno 1983 quando Emanuela, quarta figlia di Ercole, impiegato della Prefettura pontificia, e di sua moglie Maria, ex crocerossina, non rientra a casa (dentro la Città del Vaticano) dopo essere stata a lezione di musica nel complesso di Sant’Apollinare (piazza Navona). Nell’ultima telefonata, attorno alle 19, la ragazzina (iscritta al Convitto nazionale, quartiere Prati) racconta alla sorella Federica di aver ricevuto da una persona non meglio identificata una proposta di lavoro per la ditta Avon: distribuire cosmetici e volantini durante una sfilata delle Sorelle Fontana, in cambio di 375 mila lire, una bella cifra, inverosimile per un solo pomeriggio di lavoro. «Aspetta, parlane con mamma», le dice la sorella. Ma Emanuela non torna.

Le prime indagini sono mirate nel circuito Avon, in cerca di reclutatori di ragazze, ma – fatto strano, mai chiarito – già il terzo giorno a casa Orlandi si presentano due agenti del Sisde, uno dei quali si chiama Giulio Gangi. L’attenzione, grazie alle testimonianze di un vigile urbano e di un poliziotto in servizio a corso Rinascimento, davanti al Senato, si concentra poi su una Bmw verde tundra, guidata da un uomo sui 35 anni che avrebbe avvicinato una ragazzina somigliante a Emanuela. È la prima pista. Non porterà lontano.

La «ragazza del manifesto», e l’appello del Papa in mondovisione

Passano 11 giorni di ricerche in tutta Roma – è in questa fase che in città appaiono i famosi manifesti, oggi riproposti per lanciare la docuserie – ma l’evento principale avviene in mondovisione: domenica 3 luglio 1983 papa Giovanni Paolo II, sorprendendo tutti, lancia un appello per la liberazione di Emanuela durante l’Angelus, rivolgendosi a «chi ha responsabilità in questo caso». Un salto di qualità serio, grave: mai un pontefice si era occupato, da un pulpito tanto solenne, di minori spariti. Deve esserci un non detto.

Wojtyla, informato della faccenda già il 23 giugno, al suo rientro dal viaggio in Polonia, forse era stato ragguagliato in privato sulla vera «natura» della scomparsa? È stato messo al corrente di un ricatto già partito e per questo dà alla vicenda massima visibilità? Fatto è che, due giorni dopo, la mossa vaticana ha i suoi effetti: dopo le telefonate dei sedicenti «Pierluigi» e «Mario» giunte a fine giugno e tese ad accreditare la fuga volontaria della ragazza («Era a Campo de’ Fiori, si faceva chiamare Barbarella…»), il 5 luglio a casa Orlandi arriva la prima rivendicazione del rapimento: si fa vivo l’Amerikano.

L’Amerikano e lo scambio con Agca

Lo sconosciuto personaggio ha un’inflessione straniera (da qui il soprannome) e tramite varie telefonate in Vaticano e alla famiglia pone sul piatto l’oggetto della trattativa: Emanuela sarà liberata in cambio della scarcerazione di Agca, il terrorista che due anni prima, il 13 maggio 1981, ha sparato al papa polacco. La scomparsa, da questo momento, diventa un intrigo planetario. Le polizie di mezzo mondo vengono allertate. La Segreteria di Stato concede una linea riservata (tramite il codice 158).

Ma chi sono i misteriosi rapitori? Amici «Lupi grigi» dell’attentatore turco? Emissari di qualche servizio segreto? Nemici del papa alleato con Ronald Reagan contro «l’impero del male» comunista? Depistatori ingaggiati per distogliere l’opinione pubblica?

L’estate 1983 per mamma Maria, papà Ercole, le sorelle Natalina, Federica e Cristina e il fratello Pietro è da incubo: si susseguono i messaggi dell’Amerikano (considerato il «falco» dei rapitori) e del Fronte Turkesh (indicato come «colomba»), l’ultimatum del 20 luglio con in gioco «l’uccisione dell’ostaggio» e la semina di angoscianti indizi (un biglietto di Emanuela ai genitori, un’audiocassetta con lei che ripete «Dovrei frequentare il terzo liceo scientifico…», un secondo nastro di presunte sevizie).

L’opinione pubblica è sconvolta. A inizio agosto si insedia il primo governo socialista a guida Bettino Craxi, ma gli italiani in spiaggia non pensano che a lei, Emanuela, e anche a una seconda ragazzina: Mirella.

Il giallo di Mirella Gregori e l’appello di Pertini

Nel frattempo, infatti, i rapitori della «ragazza con la fascetta» hanno alzato la posta, rivendicando anche il sequestro di Mirella Gregori, un’altra 15enne, figlia del barista di via Montebello (zona Termini) e di una sarta, sparita il 7 maggio 1983 in via Nomentana, dopo essere uscita da casa dicendo che doveva incontrare un amico.

I gialli sono collegati? Certamente sì, accertano gli investigatori: il messaggio giunto l’8 settembre ai Gregori con la richiesta di un appello del presidente Pertini per la liberazione di Mirella è scritto dalla stessa mano della lettera sul caso Orlandi lasciata pochi giorni prima in un pulmino Rai a Castel Gandolfo.

E ancora: l’identikit di due tipacci che pedinarono Emanuela fin sotto casa a giugno corrisponde a quello dei loschi personaggi notati fuori dal bar dei Gregori, il giorno prima che Mirella sparisse.

A fine settembre emerge una prova ulteriore: i rapitori, con una telefonata choc, danno prova del possesso di Mirella, leggendo la lista degli abiti («Maglieria Antonia, jeans Redin, scarpe marca Saroyan…»), tutti riscontrati dalla madre e dalla sorella Maria Antonietta.

Il giallo raddoppia. Sandro Pertini, convinto fautore della linea della fermezza già tenuta con le Br, il 20 ottobre 1983 fa un’eccezione e lancia un appello tramite l’Ansa («Formulo l’auspicio che un raggio di pietà illumini l’animo dei rapitori»). In una parola: cede. Di nuovo: difficile che un presidente della Repubblica si esponga tanto, se non assolutamente certo della gravità del ricatto.

La pista del Cremlino, la ritrattazione di Agca e la «rara efferatezza»

Ma perché farle sparire? Quale il movente dei rapimenti? I fatti del 1983 si svolgono in contemporanea con gli sviluppi dell’inchiesta sulla pista bulgara (ed estensivamente sovietica) seguita dalla Procura di Roma per chiarire genesi e mandanti dell’attentato.

Chi armò la mano di Agca in piazza San Pietro?

È qui che la cronaca nera si innesta con la storia: il giudice istruttore Ilario Martella, che nel 1984 manderà a processo tre funzionari della Balkan Air come complici del turco, si convince infatti che la Orlandi e la Gregori siano state prese per illudere Agca di poter essere liberato, in cambio della promessa di rimangiarsi le accuse al mondo dell’Est lanciate a fine 1982 (ritrattazione che in effetti avviene il 28 giugno, sei giorni dopo la scomparsa di Emanuela). «Siamo in presenza di un apparato criminale sofisticatissimo e di rara efferatezza», mette in guardia Martella.

L’uomo del Sismi a Bolzano

In questa fase, si apre anche una pista che porta a Terlano, vicino Bolzano.

Una donna del posto si dice convinta di aver riconosciuto
Emanuela in una ragazzina arrivata su una A112 targata Roma nell’estate 1985 davanti a un maso abitato da un agente segreto, sua moglie e da una coppia di amici. Si trattava di una tappa del trasferimento dell’ostaggio in Germania, dove i «lupi grigi» avevano basi?

Scenario verosimile, ma lasciato cadere: i 4 indagati presto saranno prosciolti, a partire dal capocentro del Sismi, operativo a Monaco di Baviera. Anche il processo sulla «pista rossa» dell’attentato, d’altronde, nel 1986 si conclude in un nulla di fatto, con la sentenza di assoluzione dei bulgari e dei presunti complici turchi.

L’indagine sulla Gendarmeria e la pista degli adescamenti di minori

Avanti. Il giallo Orlandi è un continuo saliscendi di silenzi e ritorni d’attenzione.

Una fiammata, nel 1993, investe gli ambienti della polizia vaticana. Il vicecapo della Gendarmeria, vicino di casa della famiglia Gregori, visto spesso al bar sulla Nomentana frequentato da Mirella con l’amica Sonia, viene anche lui indagato per il sequestro.

Nel 1985 la mamma aveva raccontato di averlo incrociato durante la visita del Papa nella sua parrocchia e di aver notato che svicolava dopo aver incrociato il suo sguardo. La pista, si disse, era collegata a presunti adescamenti di minori. Chiave finalmente trovata? Ma no. La Procura di Roma fa passare un bel numero di anni per svolgere i dovuti accertamenti (addirittura 8!) fino a che il confronto tra la signora Gregori e il gendarme, tenuto il 13 ottobre 1993 e preceduto da una telefonata con cui l’indagato viene invitato a «non dire, eh, che la questione Orlandi è andata alla Segreteria di Stato…», porta a un altro buco nell’acqua.

La donna non lo riconosce, dichiara di essersi sbagliata. La prima inchiesta si avvia al termine: l’archiviazione sarà formalizzata nel 1997.

La visita di Wojtyla a casa Orlandi, e la banda della Magliana

Pausa. Per qualche anno i riflettori tornano spenti. Nel frattempo le sorelle sono diventate grandi e Pietro continua a lavorare allo Ior come impiegato, grazie ai buoni uffici di papa Wojtyla, che nel Natale 1983, in visita a casa Orlandi, dopo aver definito la scomparsa di Emanuela «un caso di terrorismo internazionale», aveva posto una mano paterna sulla spalla dell’unico figlio maschio.

È dal luglio 2005 che il mistero torna in prima pagina.
La famosa telefonata a Chi l’ha visto? («Se volete risolvere il caso Orlandi andate a vedere chi è seppellito a Sant’Apollinare») convoglia infatti l’attenzione sull’«indegna sepoltura» di Enrico De Pedis (in verità già rivelata dalla cronista del Messaggero Antonella Stocco nel 1997) e pone le basi delle successive rivelazioni dell’ex amante del boss , che sanciscono l’ingresso nella vicenda della banda della Magliana.

La confessione di Sabrina, l’ex amante di De Pedis

« Renatino mi chiese di portare una ragazzina ai piedi del Gianicolo , in fondo alla strada delle mille curve, e consegnarla a un monsignore. Così feci. Solo quando me la trovai in macchina capii che era la Orlandi».

È il 2008. La testimonianza di Sabrina Minardi conduce alla riapertura dell’inchiesta, al principio con 5 indagati: la stessa Minardi, tre esponenti della «bandaccia» accusati di complicità (tra questi l’autista del capo, Sergio Virtù) e don Pietro Vergari, l’ex rettore di Sant’Apollinare che aveva convinto il cardinale vicario di Roma, Ugo Poletti, a concedere a De Pedis (ucciso nel 1990) una cripta tanto augusta.

Affari, contatti tra malavita e ambienti religiosi, vagonate di soldi dirottati in Polonia per sostenere il sindacato cattolico Solidarnosc e conseguenti richieste di «rientro» del danaro, condite da ricatti : la traccia dell’inchiesta bis guidata dall’aggiunto Giancarlo Capaldo e dalla pm Simona Maisto, (morta nei giorni scorsi), pare più concreta delle piste passate. Follow the money: manca solo la «pistola fumante»…

Marco Accetti, l’«uomo del flauto»

E il colpo di scena, incredibilmente, arriva.

Nel marzo 2013 il fotografo romano Marco Accetti, classe 1955, figlio di massone, cresciuto in scuole cattoliche di primo livello, condannato per il mortale investimento del 12enne Josè Garramon nella pineta di Castel Fusano (a fine 1983), consegna prima a un giornalista (Fiore De Rienzo, Rai) e poi in Procura un flauto traverso.

«È quello della Orlandi, l’ho custodito io», dice. I familiari, in particolare Pietro e Natalina, riconoscono lo strumento senza esitazioni: stessa marca, stesso modello, stessa epoca di fabbricazione, stesse abrasioni agli angoli della custodia nera con velluto rosso (identica). Manca persino l’asticella per pulirlo che Emanuela aveva prestato a sua sorella Cristina.

L’uomo del flauto racconta di aver partecipato come «adescatore» e come telefonista a entrambi i sequestri nell’ambito di un piano ordito da tonache «rosse», vicine al cardinale Casaroli, interessate a «salvaguardare il dialogo con Mosca» facendo in modo che Agca ritrattasse le accuse all’Est (cosa che, come già visto, accadde).

Aggiunge che altri obiettivi erano ottenere la restituzione delle somme perdute dalla Santa Sede con il crack dell’Ambrosiano, azzerare i vertici dello Ior di monsignor Marcinkus e influire su alcune nomine ecclesiastiche. Tutte operazioni per le quali il temporaneo allontanamento da casa di due ragazze (una vaticana per premere sul Papa, l’altra italiana, per «spingere» sul capo dello Stato, titolare del potere di grazia) sarebbe tornato utile a innescare i ricatti.

Poi le cose precipitarono, purtroppo
. E non sono mai più rincasate.

La voce ritrovata, il folgoramento sotto la doccia e il «codice Avon»

A riprova del proprio coinvolgimento, Accetti invita ad ascoltare la sua voce, che è stata ritenuta compatibile dai consulenti fonici con quella del telefonista che si fece vivo dal settembre 1983 e somiglia moltissimo anche a quella di «Mario» e dell’Amerikano della prima ora.

Il testimone, inoltre, indica le cabine dalle quali partirono le chiamate e chiarisce un retroscena inedito: una delle lettere ritenute autentiche dalla polizia, giunta a fine estate ‘83 da Boston (dove si era trasferita in quel periodo la sua giovane moglie), faceva riferimento a una persona morta a Roma il 5 ottobre 1983, mai identificata, che invece lui è in grado di indicare. Si tratta della 33enne Paola Diener, figlia del commendatore Joseph, capo dell’Archivio segreto vaticano, folgorata in casa sotto la doccia, in via Gregorio VII 221, precisamente in quella data.

Sono elementi precisi, concordanti.

E infatti Accetti viene indagato dalla Procura: è il sesto. In tempi recenti, a supporto dell’ipotesi di ricatto legata alla malagestione delle casse vaticane, è emerso un indizio aggiuntivo: all’epoca molte transazioni erano affidate alla fondazione pontificia «Nova», stesse lettere della «Avon», al contrario.

Non è che i rapitori, con la proposta del finto lavoro, intesero comunicare in codice alla controparte (che avrebbe saputo dell’«offerta Avon» leggendo i giornali) il movente economico del sequestro?

Parla anche di altre vittime, Marco Accetti: la 17enne Katy Skerl, uccisa nel 1984 a Grottaferrata, a suo dire vittima della fazione opposta al suo gruppo, e Alessia Rosati, 21 anni, scomparsa dieci anni dopo.

La seconda archiviazione, e la chiusura del caso

L’inchiesta però si arena.

Sottoposto a perizia psichiatrica, Marco Accetti viene ritenuto affetto da «sindrome» narcisistica. Nel 2015 le differenti valutazioni sul suo profilo scatenano un terremoto a Piazzale Clodio: dopo sette anni di indagini, infatti, il procuratore Giuseppe Pignatone avoca a sé l’inchiesta (togliendola al suo vice, Capaldo, convinto di essere «vicino alla soluzione») e nel giro di poche settimane chiede e ottiene dal gip l’archiviazione, con il conseguente proscioglimento dei sei indagati. Stop. Caso chiuso.

Il verdetto viene confermato nel 2016 dalla Cassazione e da quel momento qualsiasi novità maturerà al di fuori del perimento investigativo e quindi sarà meno incisiva, prettamente mediatica. «L’archiviazione? Un errore imperdonabile», il commento di Martella.

Pignatone, nel frattempo andato in pensione, il 3 ottobre 2019 viene nominato da papa Francesco presidente del Tribunale vaticano. Ed è in questa veste che si occupa degli ultimi sviluppi.

Il cimitero teutonico e la vicenda della tomba vuota

La pista inglese (di cui aveva già parlato un sedicente agente segreto nel 2011), le ossa di via Po, il cimitero teutonico e l’incredibile vicenda della tomba vuota: dal 2017 sono state queste le novità più significative. Scovata dal giornalista Emiliano Fittipaldi, la presunta nota-spese per un totale di 483 milioni di lire impegnati per mantenere in vita Emanuela Orlandi in Inghilterra fino al 1997 ha fatto molto discutere. Ci è voluto poco ad accertare che il documento fosse un falso, ma il fatto che sia stato lasciato uscire dalle stanze vaticane dimostra la presenza ancora oggi di «corvi» e, forse, l’intenzione di richiamare l’attenzione sul trasferimento della ragazza all’estero, mai escluso fino in fondo.

Traccia fondata o ennesimo depistaggio? Nel giallo della «ragazza con la fascetta» è la domanda più ricorrente. Una specie di mantra, che si è riproposto nel 2018, quando sono spuntati mucchietti di ossa nella Nunziatura di via Po (poi scartati, in quanto appartenuti a una persona deceduta prima del 1964), e nel 2019, quando i resti di Emanuela sono stati cercati in due tombe del cimitero Teutonico, operazione caratterizzata dalle polemiche della famiglia Orlandi, che dopo i controlli (con esito negativo) della Santa Sede ha chiesto di analizzare in proprio i reperti, giungendo però allo stesso risultato: Emanuela non è sepolta dentro le Sacre Mura.

Il giallo della bara sparita, la traccia svanita e la nuova indagine

Quasi 40 anni di indagini e nulla di certo, insomma. Resta l’ultimo lampo, in questo thriller che neanche il più fantasioso dei giallisti avrebbe potuto immaginare: il ritrovamento della tomba vuota di Katy Skerl, presunta vittima della fazione opposta a quella dei rapitori di Emanuela e Mirella. La scoperta, al riquadro 115 del cimitero Verano, è avvenuta nel luglio 2022 e ha confermato quanto Accetti aveva anticipato in Procura fin dal 2013.

Ma perché far sparire la bara? «Per eliminare una prova del collegamento tra i casi Orlandi e Skerl, una certa etichetta sulla camicia della defunta».

Un giallo ulteriore, che si aggiunge all’infinita sequenza di segreti e misteri, sul quale il pm Erminio Amelio ha aperto un fascicolo. L’ennesimo. Si riparte. La nuova inchiesta rimanda al caso Orlandi e a questa si aggrappano le residue speranze di fare luce sull’intera saga spionistico-criminale. Sarà la volta buona?

(fperonaci@rcs.it)

31 ottobre 2022 (modifica il 31 ottobre 2022 | 16:33)

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, 2022-10-31 15:33:00, Emanuela Orlandi, 15 anni, cittadina vaticana, sparì il 22 giugno 1983. Due inchieste giudiziarie – per un totale di 11 indagati, tutti via via prosciolti – non sono bastate a fare luce su uno dei casi irrisolti più noti della storia italiana. L’intreccio con gli scandali dello Ior e i veleni contro papa Wojtyla, Fabrizio Peronaci

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