Enrico Letta, l’arma del «voto utile» per la sfida a Giorgia Meloni. Le spine del segretario sono gli alleati mancati

di Roberto GressiLa campagna decisionista per il primato nei consensi. Nel partito le insidie delle correnti e di Bonaccini Una missione sola. Mettere la ruota del Pd, anche di un solo millimetro, davanti a quella di Giorgia Meloni. Scommettendo sul voto utile, ridimensionando le ambizioni sovraniste, impedendo l’assalto ai diritti civili, spegnendo i ritorni di Fiamma. Quanti gerundi per il «due combattono, uno vive» della campagna elettorale, che quest’anno si nutrirà anche di un faccia a faccia tra i duellanti, sulla tv del Corriere. Polarizzare la sfida, visto che unire l’intero campo largo si è rivelato ben più arduo che far sedere intorno allo stesso tavolo le tribù libiche. E se la scalata dei collegi uninominali si presenta triste come una salita, è pur sempre quello del proporzionale il bottino dei seggi più grande. I pretoriani sono avvisati: nessuna pietà per chi, invece di trottare, si mette alla finestra. Perché sarà pure vero quello che scrisse Le Monde: «Tranquillo come Enrico, europeo come Letta», ma anche l’uomo più zen della politica italiana i disertori li passa a fil di spada. Un metro e ottantacinque per 85 chili, nasce a Pisa il 20 agosto del 1966, sotto il segno del Leone. Famiglia originaria della Marsica, figlio di Anna Banchi e del matematico Giorgio. È nipote di Gianni Letta, uno degli amici più cari a Silvio Berlusconi, per via materna ha anche una parentela con Antonio Gramsci. Tifa per il Milan fin dalla culla, gioca a Subbuteo, si divora gli albi di Dylan Dog, in macchina mette su Irene Grandi, Elio e le Storie Tese, Vasco Rossi e Zucchero. Va a messa alla chiesa di Testaccio, mai salito su un’auto di servizio se non da premier, vederlo perdere il controllo è come pescare un Gronchi rosa, mai musone, è bravo a cucinare la pasta, anche copiando, pare senza sfigurare, ricette di chef famosi. Ama il cinema dei classici italiani e la Formula uno, ci tiene alla privacy. Fa le scuole a Strasburgo, si laurea in diritto internazionale a Pisa, dottorato alla scuola superiore Sant’Anna. Senza nulla togliere a Carlo Azeglio Ciampi e a Romano Prodi, l’incontro più importante della sua formazione politica è quello con Beniamino Andreatta. Ministro ad appena 32 anni, premier a 47, fino all’agguato dell’allora segretario del Pd, Matteo Renzi, che se da quel giorno avesse un centesimo per tutte le volte che è stata pronunciata la frase «Stai sereno», sarebbe Rockerduck. Nel marzo del 2014, poco dopo aver consegnato la campanella guardando dall’altra parte, vola a Parigi, senza valigia di cartone. Se ne va a insegnare politica ai giovani a Sciences Po. Racconta Marc Lazar, all’indomani del 14 marzo 2021, quando torna per fare il segretario del Pd: «Non è un mistero che abbia sofferto molto dopo essere stato fatto fuori. Lo vedrete tornare meno morbido e più decisionista». E infatti, pronti e via, liquida i capigruppo, Andrea Marcucci e Graziano Delrio, e li sostituisce con due donne, Simona Malpezzi e Debora Serracchiani. La stessa voglia di decidere subito lo porta a chiudere le liste con una settimana d’anticipo, mettendosi per giorni al vento delle polemiche, tra le ire di Luca Lotti e le insoddisfazioni di Monica Cirinnà, che prima rifiuta e poi accetta, mentre si batte per dare in beneficenza i soldi della cuccia del cane. E ci si mette pure l’ormai ex capo di gabinetto del sindaco di Roma, Albino Ruberti, con il suo tragico: «Hai detto che mi compri? Io dico che ti devi inginocchiare!». Un po’ di turbolenza, mentre gli altri partiti la sera dei lunghi coltelli delle candidature se la consumano tutti insieme sul filo del suono della campanella del 22 agosto, quando è ormai tardi per le recriminazioni. Ma intanto è fatta, e ora vuole stare in piedi fino all’ultimo a giocarsela: perché al Nazareno sono convinti che la battaglia, soprattutto sugli indecisi, si combatte negli ultimi dieci giorni. Ha tre spine più una, sul suo percorso. La prima, manco a dirlo, è Giorgia Meloni. Da lei lo divide tutto, sul piano politico. Le scelte economiche, quelle sociali, la concezione della democrazia, la visione dei diritti civili, il rapporto con l’Europa, per non parlare dei retaggi del passato che in questo Paese non passano mai. È lo scontro che lo nomina unico contendente, almeno nei numeri, all’avanzata della destra. Sul piano personale rimane qualcosa di più della semplice civiltà dei rapporti tra avversari, testimoniata da ultimo dal parlottare insieme, con la mano che copre il labiale, sul palco del Meeting di Rimini. A tirare a indovinare si stavano facendo beffe di Salvini, anche se a pensare male si fa peccato. L’altro guaio si chiama Giuseppe Conte, che, accidenti a lui, si è fatto infinocchiare votando contro Mario Draghi e abbassando il ponte levatoio per l’incursione finale di Lega e Forza Italia. Insieme avrebbero sparecchiato l’ottanta per centro dei seggi del centro sud e magari se la sarebbero giocata. Terza spina, Carlo Calenda, con il quale si rimprovera di non aver cementato l’accordo consegnandosi per garanzia, l’uno con l’altro, il primogenito in ostaggio. Soprattutto contro di lui concentra la richiesta di non disperdere i voti, mentre teme Renzi solo per l’abilità nei cambi di casacca post elettorali. Non rimane, in ambito spine, che il «più una», quella che si insinua in casa. Non sfuggono, nel secondo cerchio del Nazareno, i silenzi dei gran maestri delle correnti, Dario Franceschini, Andrea Orlando e Lorenzo Guerini, per i quali l’espressione «andare all’opposizione» è un periodo ipotetico dell’irrealtà, blasfemo e punibile con il massimo della pena. Mentre Stefano Bonaccini parla, oh se parla. E qui vale l’antico motto: «Temo gli emiliani anche quando portano doni». 1 settembre 2022 (modifica il 1 settembre 2022 | 07:42) © RIPRODUZIONE RISERVATA , 2022-09-01 05:43:00, La campagna decisionista per il primato nei consensi. Nel partito le insidie delle correnti e di Bonaccini, Roberto Gressi

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