L’eterna vita del «Santo», la serie sull’avventuriero elegante

di Aldo Grasso

Su Netflix un documentario dedicato proprio a questo personaggio, Simon Templar, interpretato da Roger Moore (futuro 007). Una sorta di moderno Robin Hood sempre pronto ad accorrere in difesa dei più deboli

Ve lo ricordate il «Santo»? Bisogna abbandonarsi all’onda dei ricordi (la memoria non conosce alterative: o lanterna magica o film dell’orrore, a ciascuno la sua), fingere di occuparsi di storia della tv. Me lo ricordo come colonna portante della programmazione di Telemilano, l’antenata o antennata di Canale 5, sul finire degli anni 70. Ogni pomeriggio c’era il «Santo»: «Il mio nome è Templar, Simon Templar». Ne parlo ora perché su Netflix c’è un documentario dedicato proprio a questo personaggio: «The Saint Steps in… to Television» di Thomas Cock, Ian Dickerson e Stephen La Rivière. Sono ricordi, testimonianze, scorribande nell’immaginario televisivo. La serie, prodotta in Inghilterra, racconta le avventure di Simon Templar (Roger Moore, futuro 007), sorta di moderno Robin Hood, creato dallo scrittore Leslie Charteris, sempre pronto ad accorrere in aiuto di persone che subiscono torti, in special modo se giovani, di bell’aspetto e di sesso femminile (la convenzione voleva così).

L’elegante avventuriero è soprannominato «il santo» per l’apparente innocenza con cui riesce a risolvere i casi, anche se spesso deve ricorrere a metodi non troppo legali (santo per modo di dire). Gli episodi di «The Saint» sono 118 nell’arco di sei stagioni e, stando a quel che si dice nel documentario, ancora oggi vengono replicati in molte tv. Negli anni, altre due edizioni sono state tentate con diversi protagonisti (Ian Ogilvy alla fine degli anni 70 e Simon Dutton dieci anni dopo), ma con scarsi risultati in termini di ascolto. Le avventure del «santo» sono state portate sul grande schermo per ben tre volte: nel 1938 con Louis Hayward, nel 1941 con George Sanders e nel 1997 con Val Kilmer. La scrittura è piacevole, non manca senso dell’umorismo, le storie scorrono quasi scontate ma all’improvviso regalano guizzi di originalità e di serenità.

6 novembre 2022 (modifica il 6 novembre 2022 | 20:46)

© RIPRODUZIONE RISERVATA

, 2022-11-06 19:47:00,

di Aldo Grasso

Su Netflix un documentario dedicato proprio a questo personaggio, Simon Templar, interpretato da Roger Moore (futuro 007). Una sorta di moderno Robin Hood sempre pronto ad accorrere in difesa dei più deboli

Ve lo ricordate il «Santo»? Bisogna abbandonarsi all’onda dei ricordi (la memoria non conosce alterative: o lanterna magica o film dell’orrore, a ciascuno la sua), fingere di occuparsi di storia della tv. Me lo ricordo come colonna portante della programmazione di Telemilano, l’antenata o antennata di Canale 5, sul finire degli anni 70. Ogni pomeriggio c’era il «Santo»: «Il mio nome è Templar, Simon Templar». Ne parlo ora perché su Netflix c’è un documentario dedicato proprio a questo personaggio: «The Saint Steps in… to Television» di Thomas Cock, Ian Dickerson e Stephen La Rivière. Sono ricordi, testimonianze, scorribande nell’immaginario televisivo. La serie, prodotta in Inghilterra, racconta le avventure di Simon Templar (Roger Moore, futuro 007), sorta di moderno Robin Hood, creato dallo scrittore Leslie Charteris, sempre pronto ad accorrere in aiuto di persone che subiscono torti, in special modo se giovani, di bell’aspetto e di sesso femminile (la convenzione voleva così).

L’elegante avventuriero è soprannominato «il santo» per l’apparente innocenza con cui riesce a risolvere i casi, anche se spesso deve ricorrere a metodi non troppo legali (santo per modo di dire). Gli episodi di «The Saint» sono 118 nell’arco di sei stagioni e, stando a quel che si dice nel documentario, ancora oggi vengono replicati in molte tv. Negli anni, altre due edizioni sono state tentate con diversi protagonisti (Ian Ogilvy alla fine degli anni 70 e Simon Dutton dieci anni dopo), ma con scarsi risultati in termini di ascolto. Le avventure del «santo» sono state portate sul grande schermo per ben tre volte: nel 1938 con Louis Hayward, nel 1941 con George Sanders e nel 1997 con Val Kilmer. La scrittura è piacevole, non manca senso dell’umorismo, le storie scorrono quasi scontate ma all’improvviso regalano guizzi di originalità e di serenità.

6 novembre 2022 (modifica il 6 novembre 2022 | 20:46)

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Pietro Guerra

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