«Allora che si fa, eh?». È la domanda che compare ripetutamente nelle prime righe di Arancia meccanica, il romanzo in cui Anthony Burgess (insegnante) nel 1962 mostrava dove la cultura dominante avrebbe condotto i ragazzi. Quella domanda se la pongono infatti i quattro annoiati giovani protagonisti che, usciti dal loro amato bar, picchiano il primo malcapitato: un anziano maestro con in mano un libro, che diventa l’assurdo capo d’accusa per il pestaggio.
Apro le righe a lei indirizzate, chiunque lei sarà, con un’immagine che rappresenta ogni giovane che non abbia ricevuto in eredità una vita amata e sensata. Nel libro questa condizione di diseredati è genialmente racchiusa nel gergo dei ragazzi: il loro mondo è a misura del loro linguaggio.
Se il racconto inizia con degli adolescenti che picchiano a morte un maestro con un libro è perché il virus dell’anima, che io chiamo Conind (consumismo, nichilismo, individualismo), ha come nemico giurato chiunque ricordi che la vita ha senso: la scuola. Oggi la scuola sembra sempre quel vecchio calpestato, purtroppo anche per un ministero dell’Istruzione diventato dell’Ostruzione, per motivi che in questa rubrica ho sollevato più volte e sulle cui possibili soluzioni ora non voglio di nuovo soffermarmi, perché, dopo 35 anni tra i banchi (13 da studente e 22 da insegnante), credo siano frutto di un’unica radice malata che, se non viene curata, rende inefficace e apparente qualsiasi altro tipo di «riforma».
Ministero (dal latino minus: meno, opposto di magistero, da magis: più, da cui maestro), significa servizio: il ministro è quindi un servitore.
Lei lo sarà di quasi 9 milioni di ragazzi e 1 milione di adulti (tra maestri e personale), raccolti attorno a 850 mila cattedre.
Cattedra significa sedia (non è il tavolo), da cui cattedrale, la chiesa sede (dove c’è la sedia) del vescovo. Ogni classe è una cattedrale dell’umano, luogo sacro, perché sacro è ciò che è unico e inviolabile (ogni vita). Queste cattedrali, chiamate scuola, sono uno dei due luoghi (l’altro è l’ospedale) su cui misuro la civiltà e l’avvenire di uno Stato. Lei è quindi un papa al servizio di 850 mila cattedrali fatte di 10 milioni di persone, cioè un sesto del Paese, il sesto a cui, per ragioni anagrafiche, appartiene più futuro.
Dirò di più, il popolo a lei affidato viene dal futuro, perché il futuro non sta dopo né fuori di noi, ma già dentro, come seme che aspetta di fiorire, solo a patto che, chi ne è portatore, ne diventi consapevole scoprendo la sua chiamata, quella per cui Socrate è stato messo a morte con l’accusa di insegnare ai giovani nuove divinità (faceva Scuola). Per questo futuro di carne lei ha a disposizione annualmente 45 miliardi di euro delle nostre tasse, 7 mila euro l’anno per ogni studente. Non sono pochi per riuscire a fare ciò che serve.
Ma che fine fanno? Vanno dove va a finire gran parte del nostro lavoro nella scuola di oggi: non in classe ma in burocrazia, non in tempo per i ragazzi ma per un sistema che ha reso difficilissimo a noi insegnare e quindi a loro imparare.
Se l’educazione ha come fine la libertà e l’istruzione la cultura (che è la somma di tutte le creazioni umane che servono a umanizzare la vita), educazione e istruzione sono inscindibili. La cultura dovrebbe infatti mettere ogni nuovo nato a contatto con il meglio dell’umanità passata e presente, risvegliando «il maestro interiore», cioè la capacità autonoma di portare a compimento la propria vocazione, spinti dall’energia che dà l’amore per se stessi, interiorizzato a partire dall’amore ricevuto nelle relazioni significative (famiglia e scuola).
Il suo ministero è quindi anche un vivaio: cultura viene dal latino colo, coltivare, che troviamo in agri-coltura, cura del campo, da cui Cicerone per analogia trasse animi-cultura, cura dell’animo, per indicare il metodo perché l’umano dia frutto (solo chi è unito all’origine può essere originale).
Milioni di ragazzi passeranno 200 giorni l’anno, 5 ore al giorno, per 13 anni in questo vivaio dell’animo a lei affidato: che raccolto verrà fuori dopo tanto tempo? L’esito di colo è infatti cultus da cui viene non solo la parola colto (sia nel senso di raccolto che di istruito) ma anche culto: istruire è azione educativa che richiede l’attenzione dovuta alle cose sacre. Lo sapeva bene Pico della Mirandola, alba incompiuta (morto giovane, probabilmente avvelenato) del nostro umanesimo e Rinascimento. Nel discorso Sulla dignità dell’uomo che avrebbe dovuto tenere a dotti e principi a Roma nel 1487 ma che il papa gli vietò di pronunciare per alcune tesi ritenute pericolose, il filosofo aveva scritto: «Nell’uomo, all’atto della nascita, il Padre infuse i semi di ogni specie e i germi di ogni genere di vita. Cresceranno, e in lui produrranno i loro frutti, quelli che ciascuno coltiverà. Se coltiverà quelli vegetali, diventerà un vegetale; se quelli istintivi, diventerà una bestia; se quelli razionali, riuscirà un essere celeste; se quelli spirituali, sarà un figlio di Dio».
L’umanesimo, sintesi culturale del meglio di Atene, Roma e Gerusalemme, è stato il più grande progetto pedagogico e politico (l’Europa ne è stata il suo frutto migliore) della storia, ma oggi è esangue perché ha tradito le sue fonti vitali in nome dell’autosufficienza (mi costruisco da solo, contro tutti) e dell’utile (tecnico ed economico).
La cultura dominante, quella del Conind, è infatti una cultura che non risveglia il maestro ma il mostro interiore: affamato, impaurito e arrabbiato.
Anche la scuola, sebbene lo difenda a parole, ha abbandonato quel progetto umanistico e sposato, a livello strutturale e organizzativo, il pensiero dominante: utilitaristico (eliminazione di materie ritenute «inutili» ma che sono indispensabili per coltivare ciò che è umano nell’uomo), tecnocratico (più tablet che insegnanti stabili e appassionati), spersonalizzato (programmi uguali per tutti, test ed esami standardizzati) e competitivo (modello aziendale).
I ragazzi sono così diventati oggetti di aspettative (risorse) e non soggetti di possibilità (creatori di risorse), e infatti dalla scuola scappano o ne escono senza capire se avesse a che fare con la vita.
Il suo ministero è di fronte a una svolta: poter rinnovare la scuola con un umanesimo che definisco carnale (cura di tutta la persona e non solo di un cervello senza corpo) e che ho provato a raccontare nell’ultimo romanzo che ho per questo intitolato L’appello. Una scuola che da catena di montaggio diventi bottega, ponendo la cura della relazione tra maestri e discepoli a monte dei contenuti (insegnare è trasmettere «essere» prima che «parole» e l’essere si ri-genera o si de-genera in base alla qualità della relazione).
Qualsiasi contenuto viene privato di valore se un discepolo non percepisce la propria vita come valore negli occhi del maestro: come pretendi di dirmi che la vita di Dante ha valore se la mia, di studente, non ha per te almeno lo stesso valore?
Qualsiasi riforma rimarrà di superficie se prima non ci sarà una rivoluzione copernicana dello sguardo, ri-formare significa dare nuova forma e la forma di cui la scuola italiana ha bisogno è relazionale, dalla disposizione dei banchi alla formazione dei nuovi maestri. Non è sentimentalismo, ma necessità professionale: una relazione è reale quando i suoi frutti, detti beni relazionali, sono riscontrabili. La relazione educativa esiste se produce come suo bene ciò che per Pico era la grande dignità dell’uomo: la libertà creativa. Il frutto dell’educazione non è addomesticare e addestrare, ma liberare le energie creative da ciò che le paralizza: la paura e l’ignoranza, che portano quelle energie a distruggere (se stessi e il mondo) anziché a creare, come l’Ultraviolenza a cui si sono votati i ragazzi del romanzo di Burgess (per chi non crea, la distruzione resta l’unico e necessario modo di relazionarsi con l’altro e il mondo).
Lei è chiamato a inaugurare un Rinascimento italiano, non elitario ma popolare, non individualistico ma relazionale, non retorico ma carnale. Un cambiamento di prospettiva potrebbe simbolicamente cominciare con una sua circolare che obblighi a: fare una colletta per mettere una bella pianta in ogni classe di cui a turno tutti si prenderanno cura; far ascoltare in silenzio della buona musica (che vuoto d’armonia nella formazione scolastica!) in apertura di giornata; far formulare l’appello mattutino non per giustificare l’assenza ma la presenza, del maestro, che potrebbe, dopo aver risposto in prima persona, chiedere a ogni singolo discepolo: «Sei presente? Per chi e cosa? Che cosa sarai e farai oggi che puoi essere e fare solo tu, insieme a noi?».
Solo chi è toccato dalla bellezza della relazione con la vita (la pianta), con il bello-vero-buono creato dagli uomini del passato (le materie: la musica è una metafora) e narrato da quelli del presente (i maestri) si sente chiamato a fare qualcosa di bello della e nella sua vita.
Delle singole tappe dei miei 13 anni di scuola non ricordo i contenuti delle lezioni, ma il rapporto con uno o due maestri che mi hanno cambiato la vita mentre facevano lezione: quelle relazioni sono la ri-forma della scuola, le definisco infatti re-lezioni. Perché non farne un sistema invece di un’eccezione? Non a caso il titolo del libro del maestro picchiato a morte in Arancia meccanica è: «Il miracolo del fiocco di neve».
La distruzione del mondo e dell’altro è proporzionale all’incapacità di vedere la bellezza che, essendo amore realizzato, ispira alla cura e alla creazione, il brutto è invece amore paralizzato. Lei può riportare questa bellezza nelle cattedrali (perché l’edilizia scolastica è così brutta e trascurata?) e nei vivai dell’umano (perché dedichiamo più tempo alle carte che alla carne?).
Ci vorrà il coraggio di chi permetterà ai frutti di maturare anche se non sa se ne godrà, come mi disse un palestinese: «nel deserto chi semina datteri, non mangia datteri», perché ci vogliono almeno due generazioni perché quel terreno dia frutto. Terra e semi fanno sempre il loro compito, ma solo se affidati al ministero di un bravo giardiniere. Mi auguro sia il suo.
Buon lavoro, di cuore.
2 ottobre 2022, 23:35 – modifica il 2 ottobre 2022 | 23:35
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, 2022-10-02 21:40:00,
«Allora che si fa, eh?». È la domanda che compare ripetutamente nelle prime righe di Arancia meccanica, il romanzo in cui Anthony Burgess (insegnante) nel 1962 mostrava dove la cultura dominante avrebbe condotto i ragazzi. Quella domanda se la pongono infatti i quattro annoiati giovani protagonisti che, usciti dal loro amato bar, picchiano il primo malcapitato: un anziano maestro con in mano un libro, che diventa l’assurdo capo d’accusa per il pestaggio.
Apro le righe a lei indirizzate, chiunque lei sarà, con un’immagine che rappresenta ogni giovane che non abbia ricevuto in eredità una vita amata e sensata. Nel libro questa condizione di diseredati è genialmente racchiusa nel gergo dei ragazzi: il loro mondo è a misura del loro linguaggio.
Se il racconto inizia con degli adolescenti che picchiano a morte un maestro con un libro è perché il virus dell’anima, che io chiamo Conind (consumismo, nichilismo, individualismo), ha come nemico giurato chiunque ricordi che la vita ha senso: la scuola. Oggi la scuola sembra sempre quel vecchio calpestato, purtroppo anche per un ministero dell’Istruzione diventato dell’Ostruzione, per motivi che in questa rubrica ho sollevato più volte e sulle cui possibili soluzioni ora non voglio di nuovo soffermarmi, perché, dopo 35 anni tra i banchi (13 da studente e 22 da insegnante), credo siano frutto di un’unica radice malata che, se non viene curata, rende inefficace e apparente qualsiasi altro tipo di «riforma».
Ministero (dal latino minus: meno, opposto di magistero, da magis: più, da cui maestro), significa servizio: il ministro è quindi un servitore.
Lei lo sarà di quasi 9 milioni di ragazzi e 1 milione di adulti (tra maestri e personale), raccolti attorno a 850 mila cattedre.
Cattedra significa sedia (non è il tavolo), da cui cattedrale, la chiesa sede (dove c’è la sedia) del vescovo. Ogni classe è una cattedrale dell’umano, luogo sacro, perché sacro è ciò che è unico e inviolabile (ogni vita). Queste cattedrali, chiamate scuola, sono uno dei due luoghi (l’altro è l’ospedale) su cui misuro la civiltà e l’avvenire di uno Stato. Lei è quindi un papa al servizio di 850 mila cattedrali fatte di 10 milioni di persone, cioè un sesto del Paese, il sesto a cui, per ragioni anagrafiche, appartiene più futuro.
Dirò di più, il popolo a lei affidato viene dal futuro, perché il futuro non sta dopo né fuori di noi, ma già dentro, come seme che aspetta di fiorire, solo a patto che, chi ne è portatore, ne diventi consapevole scoprendo la sua chiamata, quella per cui Socrate è stato messo a morte con l’accusa di insegnare ai giovani nuove divinità (faceva Scuola). Per questo futuro di carne lei ha a disposizione annualmente 45 miliardi di euro delle nostre tasse, 7 mila euro l’anno per ogni studente. Non sono pochi per riuscire a fare ciò che serve.
Ma che fine fanno? Vanno dove va a finire gran parte del nostro lavoro nella scuola di oggi: non in classe ma in burocrazia, non in tempo per i ragazzi ma per un sistema che ha reso difficilissimo a noi insegnare e quindi a loro imparare.
Se l’educazione ha come fine la libertà e l’istruzione la cultura (che è la somma di tutte le creazioni umane che servono a umanizzare la vita), educazione e istruzione sono inscindibili. La cultura dovrebbe infatti mettere ogni nuovo nato a contatto con il meglio dell’umanità passata e presente, risvegliando «il maestro interiore», cioè la capacità autonoma di portare a compimento la propria vocazione, spinti dall’energia che dà l’amore per se stessi, interiorizzato a partire dall’amore ricevuto nelle relazioni significative (famiglia e scuola).
Il suo ministero è quindi anche un vivaio: cultura viene dal latino colo, coltivare, che troviamo in agri-coltura, cura del campo, da cui Cicerone per analogia trasse animi-cultura, cura dell’animo, per indicare il metodo perché l’umano dia frutto (solo chi è unito all’origine può essere originale).
Milioni di ragazzi passeranno 200 giorni l’anno, 5 ore al giorno, per 13 anni in questo vivaio dell’animo a lei affidato: che raccolto verrà fuori dopo tanto tempo? L’esito di colo è infatti cultus da cui viene non solo la parola colto (sia nel senso di raccolto che di istruito) ma anche culto: istruire è azione educativa che richiede l’attenzione dovuta alle cose sacre. Lo sapeva bene Pico della Mirandola, alba incompiuta (morto giovane, probabilmente avvelenato) del nostro umanesimo e Rinascimento. Nel discorso Sulla dignità dell’uomo che avrebbe dovuto tenere a dotti e principi a Roma nel 1487 ma che il papa gli vietò di pronunciare per alcune tesi ritenute pericolose, il filosofo aveva scritto: «Nell’uomo, all’atto della nascita, il Padre infuse i semi di ogni specie e i germi di ogni genere di vita. Cresceranno, e in lui produrranno i loro frutti, quelli che ciascuno coltiverà. Se coltiverà quelli vegetali, diventerà un vegetale; se quelli istintivi, diventerà una bestia; se quelli razionali, riuscirà un essere celeste; se quelli spirituali, sarà un figlio di Dio».
L’umanesimo, sintesi culturale del meglio di Atene, Roma e Gerusalemme, è stato il più grande progetto pedagogico e politico (l’Europa ne è stata il suo frutto migliore) della storia, ma oggi è esangue perché ha tradito le sue fonti vitali in nome dell’autosufficienza (mi costruisco da solo, contro tutti) e dell’utile (tecnico ed economico).
La cultura dominante, quella del Conind, è infatti una cultura che non risveglia il maestro ma il mostro interiore: affamato, impaurito e arrabbiato.
Anche la scuola, sebbene lo difenda a parole, ha abbandonato quel progetto umanistico e sposato, a livello strutturale e organizzativo, il pensiero dominante: utilitaristico (eliminazione di materie ritenute «inutili» ma che sono indispensabili per coltivare ciò che è umano nell’uomo), tecnocratico (più tablet che insegnanti stabili e appassionati), spersonalizzato (programmi uguali per tutti, test ed esami standardizzati) e competitivo (modello aziendale).
I ragazzi sono così diventati oggetti di aspettative (risorse) e non soggetti di possibilità (creatori di risorse), e infatti dalla scuola scappano o ne escono senza capire se avesse a che fare con la vita.
Il suo ministero è di fronte a una svolta: poter rinnovare la scuola con un umanesimo che definisco carnale (cura di tutta la persona e non solo di un cervello senza corpo) e che ho provato a raccontare nell’ultimo romanzo che ho per questo intitolato L’appello. Una scuola che da catena di montaggio diventi bottega, ponendo la cura della relazione tra maestri e discepoli a monte dei contenuti (insegnare è trasmettere «essere» prima che «parole» e l’essere si ri-genera o si de-genera in base alla qualità della relazione).
Qualsiasi contenuto viene privato di valore se un discepolo non percepisce la propria vita come valore negli occhi del maestro: come pretendi di dirmi che la vita di Dante ha valore se la mia, di studente, non ha per te almeno lo stesso valore?
Qualsiasi riforma rimarrà di superficie se prima non ci sarà una rivoluzione copernicana dello sguardo, ri-formare significa dare nuova forma e la forma di cui la scuola italiana ha bisogno è relazionale, dalla disposizione dei banchi alla formazione dei nuovi maestri. Non è sentimentalismo, ma necessità professionale: una relazione è reale quando i suoi frutti, detti beni relazionali, sono riscontrabili. La relazione educativa esiste se produce come suo bene ciò che per Pico era la grande dignità dell’uomo: la libertà creativa. Il frutto dell’educazione non è addomesticare e addestrare, ma liberare le energie creative da ciò che le paralizza: la paura e l’ignoranza, che portano quelle energie a distruggere (se stessi e il mondo) anziché a creare, come l’Ultraviolenza a cui si sono votati i ragazzi del romanzo di Burgess (per chi non crea, la distruzione resta l’unico e necessario modo di relazionarsi con l’altro e il mondo).
Lei è chiamato a inaugurare un Rinascimento italiano, non elitario ma popolare, non individualistico ma relazionale, non retorico ma carnale. Un cambiamento di prospettiva potrebbe simbolicamente cominciare con una sua circolare che obblighi a: fare una colletta per mettere una bella pianta in ogni classe di cui a turno tutti si prenderanno cura; far ascoltare in silenzio della buona musica (che vuoto d’armonia nella formazione scolastica!) in apertura di giornata; far formulare l’appello mattutino non per giustificare l’assenza ma la presenza, del maestro, che potrebbe, dopo aver risposto in prima persona, chiedere a ogni singolo discepolo: «Sei presente? Per chi e cosa? Che cosa sarai e farai oggi che puoi essere e fare solo tu, insieme a noi?».
Solo chi è toccato dalla bellezza della relazione con la vita (la pianta), con il bello-vero-buono creato dagli uomini del passato (le materie: la musica è una metafora) e narrato da quelli del presente (i maestri) si sente chiamato a fare qualcosa di bello della e nella sua vita.
Delle singole tappe dei miei 13 anni di scuola non ricordo i contenuti delle lezioni, ma il rapporto con uno o due maestri che mi hanno cambiato la vita mentre facevano lezione: quelle relazioni sono la ri-forma della scuola, le definisco infatti re-lezioni. Perché non farne un sistema invece di un’eccezione? Non a caso il titolo del libro del maestro picchiato a morte in Arancia meccanica è: «Il miracolo del fiocco di neve».
La distruzione del mondo e dell’altro è proporzionale all’incapacità di vedere la bellezza che, essendo amore realizzato, ispira alla cura e alla creazione, il brutto è invece amore paralizzato. Lei può riportare questa bellezza nelle cattedrali (perché l’edilizia scolastica è così brutta e trascurata?) e nei vivai dell’umano (perché dedichiamo più tempo alle carte che alla carne?).
Ci vorrà il coraggio di chi permetterà ai frutti di maturare anche se non sa se ne godrà, come mi disse un palestinese: «nel deserto chi semina datteri, non mangia datteri», perché ci vogliono almeno due generazioni perché quel terreno dia frutto. Terra e semi fanno sempre il loro compito, ma solo se affidati al ministero di un bravo giardiniere. Mi auguro sia il suo.
Buon lavoro, di cuore.
2 ottobre 2022, 23:35 – modifica il 2 ottobre 2022 | 23:35
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, Alessandro D’Avenia