Galline ovaiole troppo sfruttate, il 97% di loro ha più ossa rotte

di Alessandro Sala

L’eccessiva produzione (323 uova all’anno in media) fa sì che il calcio venga dirottato dal sistema scheletrico ai gusci. E questo rende gli animali estremamente fragili

La quasi totalità delle galline ovaiole, anche quelle allevate negli allevamenti biologici, riporta fratture alle ossa, in particolare allo sterno. E questo è dovuto non tanto e non solo a scontri, cadute e collisioni in capannoni sovraffollati. Ma anche al loro eccessivo sfruttamento: costrette a produrre uova in maniera intensiva — ogni esemplare ne produce mediamente 323, ovvero quasi uno al giorno — e spesso in età ancora giovane, il calcio delle loro ossa non ha sufficiente tempo per rigenerarsi, essendo utilizzato dall’organismo anche per la produzione dei gusci. Ossa più fragili, dunque, e più soggette a traumi e fratture.

È la conclusione a cui sono giunti i ricercatori dell’Università di Berna, che hanno sottoposto a radiografie 150 galline per un periodo di 10 mesi raccogliendo risultati impressionanti: il 97% degli esemplari nell’arco del periodo di osservazione riportava infatti una o più fratture, con una media di tre per ogni animale. Lo studio è stato realizzato in Svizzera ma il problema , sostengono gli autori della ricerca, è generalizzato. «Le modalità attuali di allevamento delle galline e di altri animali — sottolinea il dr. Harno Würbel, docente di Benessere degli animali alla Facoltà di Medicina Veterinaria — il dolore e la sofferenza sono inevitabili. Non sono metodi sostenibili». Anche uno studio danese, diffuso lo scorso anno, aveva evidenziato la stessa problematica, così come altre ricerche effettuate negli anni in diverse nazioni. I ricercatori svizzeri hanno fatto però ricorso alla radiografia, anziché alla semplice palpazione, e questo ha permesso di rilevare un numero maggiore di fratture. Il 97% di esemplari feriti indica che la presenza di fratture è la regola, anche quando non si parla di allevamenti intensivi con capannoni sovraffollati. Lo studio danese evidenziava, tuttavia, qualche differenza nell’incidenza delle fratture in base alle modalità di detenzione delle galline, con frequenze minori nel caso di esemplari allevati all’aperto.

Il dolore non sempre viene manifestato in maniera evidente dagli animali. Tuttavia ci sono dei segnali che possono far intuire che qualcosa non va: galline che si muovono più lentamente o che impiegano più tempo per alzarsi o che tendono ad abbeverarsi di più dalle fontanelle con acqua addizionata di antidolorifici presenti in molti allevamenti.

«Noi denunciamo da anni l’impatto degli allevamenti intensivi sulla salute delle galline ovaiole e dei loro piccoli — commenta Alice Trombetta, direttrice esecutiva di Animal Equality Italia che oggi ha rilanciato la ricerca dell’ateneo elvetico —. Lo studio dell’Università di Berna è la riprova che si tratta di un sistema produttivo ancora troppo basato sullo sfruttamento che non tiene adeguatamente conto del benessere degli animali e che genera inutile sofferenza, in contrasto con qualsiasi forma di benessere animale». Animal Equality ricorda inoltre che in Italia sono allevate circa 40 milioni di galline ovaiole che, secondo dati dell’associazione, nel nostro Paese vivono per il 40% in gabbie. Sono invece tra i 25 e i 40 milioni i pulcini maschi di questa specie che vengono uccisi appena nati (essendo maschi non potranno infatti produrre uova e, di conseguenza, per l’industria sono «inutili»). Nelle settimane scorse era stato approvato alla Camera un emendamento che prevede che entro la fine del 2026 i pulcini non siano più triturati vivi e su cui il Senato non si è ancora espresso.

1 marzo 2022 (modifica il 1 marzo 2022 | 19:05)

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