Gianluca Grignani: «Ho 50 anni e me li sento tutti, non ho mai amato davvero. Il paradiso? Birre e donne»

di Roberta Scorranese

Il cantautore: «Pensavano fossi morto, giravo il Sudamerica. Volevo fare la scuola d’arte e i miei genitori me lo impedirono, temevano che lì girassero le canne. Ma io con le canne avevo iniziato poco più che bambino»

I cinquant’anni di Gianluca Grignani. Sembra quasi una notizia falsa.
«Ci sono e me li sento tutti. Ma non è un periodo di buio, è un periodo di raccolta. Ho cominciato a seminare quasi trent’anni fa e adesso eccomi, voglio i frutti».

Semina artistica?
«Certo. Oggi finalmente ho capito che sono un artista, nonostante per anni abbiano fatto di tutto per farmi sembrare qualcosa d’altro».

Però, Grignani, lei ci ha messo del suo.
«Indubbiamente. Ma l’ho fatto perché mi volevano così. Vengo fuori nel 1994 con Destinazione Paradiso e se i musicisti, quelli veri, apprezzano il mio talento, comincia subito la denigrazione dei media. Ha un bel faccino ma niente di più, dicevano di me. Sono sempre stato fuori asse: troppo bello per essere un rocker, troppo ribelle per essere un bravo musicista, troppo bizzarro per seguire le regole. Ma lei lo sa che dopo Destinazione Paradiso avevo deciso di smettere?».

E perché?
«Avevo capito che mi si chiedeva di essere un personaggio, ma io volevo fare altro. Volevo fare musica, sperimentare. Feci Fabbrica di plastica, dopo, proprio per denunciare il sistema dello spettacolo, che ci vuole fatti con lo stampino».

Lei è nato il 7 aprile del 1972, a Precotto, periferia milanese. Com’è stata la sua infanzia?
«Palazzoni di cemento, un campetto di calcio, una famiglia non facile. Papà se ne andò di casa e si fece una famiglia a parte, mamma fece di tutto per crescere me e mia sorella, ma a me l’affetto è mancato. Oggi, in fondo, capisco i miei. Li ritrovo nelle stesse ansie che ho io da genitore, in quella paura di non essere all’altezza. Ma non sempre loro mi hanno capito. Esempio: io volevo fare la scuola d’arte ma loro me lo impedirono perché, pensi un po’, erano convinti che lì giravano le canne. Non sapevano che io le canne avevo cominciato a farmele che ero poco più di un bambino e me le facevo altrove».

Cosa cercava in quelle fughe dalla realtà?
«Ero già un artista, la mia prima poesia l’ho scritta a sei anni, la prima canzone a tredici. Avevo la fissa di Elvis, ma ascoltavo anche Lucio Battisti. Il problema era che non sapevo come rendere concreto tutto questo. E allora la rabbia, l’inadeguatezza, i casini a scuola. Ho fatto tante scuole ma le ho mollate tutte. Quella in cui sono rimasto di più è stato l’istituto per il Turismo. In classe con me c’era anche Filippo Solibello, quello che oggi fa Caterpillar. Io lo chiamo ma lui fa il fenomeno. Vabbé. Poi quando ci trasferimmo a Lesmo, in Brianza, cominciai a fare musica sul serio».

Vasco Rossi ha detto che «Gianluca Grignani è il John Lennon italiano».
«Sì, però voglio ricordare anche che ragazzi più giovani come Rkomi o Irama mi chiamano leggenda e mi rispettano. La musica è stata sempre dalla mia parte».

In ventisei anni di carriera lei ha venduto qualcosa come cinque milioni di dischi. Eppure, lei viene ricordato sempre e soltanto per i suoi eccessi. Perché?
«Intendiamoci: io ho provato di tutto. E ho fatto di tutto. Ma perché additare sempre il Grignani ribelle quando la mia carriera dimostra che c’è dell’altro? Esempio. All’Arena di Verona, l’altro giorno, sono sceso tra il pubblico a dare la mano a un signore che cantava La mia storia tra le dita. Per me è normale, ma quando nell’inverno scorso sul palco di Sanremo, assieme a Irama ho fatto la rockstar, tutti hanno scritto semplicemente che ero ubriaco. Nella mia vita ci sono stati e ci sono dei momenti di nulla, lo so. Mi sono rifiutato di cantare in playback, qualche volta ho fatto cazzate come dare in escandescenze. Però nessuno parla del Grignani che legge Calvino o Pirandello. Del Grignani che conosce l’opera incompiuta di Kafka e che è in grado di fare paragoni con Dostoevskij. Del Grignani che ha debuttato con Destinazione Paradiso ma che poi, per fare Fabbrica di plastica, ha messo su un vero studio di produzione».

Me lo racconta il giorno più brutto della sua vita?
«Un’immagine precisa. Io da solo in questa grandissima casa (una villa-studio a San Colombano al Lambro, tra Pavia e Lodi, ndr). Nel salotto, letteralmente aggrappato a una sedia. Aggrappato per non cadere in chissà quale abisso. Guardo fuori dalla finestra, un tempo uggioso, aspetto qualcuno. Non una persona particolare, qualsiasi persona. Ma passano le ore e non arriva nessuno. Non c’è nessuno e io mi sento solo come non mai. La separazione è qualcosa che fa male dopo un po’. E siccome io non ho stretti contatti con i miei genitori, quando mi sono separato ho sentito una solitudine dolorosissima, la consapevolezza di essere senza nessuno. Non ero in me quel giorno, è chiaro. Ma non era lontananza dalla realtà, era dolore».

Lei si è separato da Francesca Dall’Olio dopo diciassette anni insieme e quattro figli.
«La più grande ha scelto di vivere con me, pensi un po’».

Ginevra, Giselle, Giosuè e Giona. Che padre è Gianluca Grignani?
«Pieno di paure. Non so se sarò all’altezza, se riuscirò a fare bene. Una volta Giselle mi ha chiesto se essere un artista voleva dire essere come me. Come fai a spiegare a una bambina che un artista è libero per natura? E che certe canzoni nascono da un dolore indicibile? E che qualche volta le canzoni migliori mi vengono mentre sono a tavola o in viaggio? E che una volta, tanti anni fa, mentre tutto il mondo mi credeva morto, io stavo girando l’America Latina? Impiegherò anni a spiegare tutto questo ai miei figli e spero di avere ancora molto tempo davanti».

Oltre a Vasco, lei ha avuto e ha tanti estimatori nella musica. Se le dico Lucio Dalla?
«Sta nominando uno dei più grandi artisti italiani che abbiamo avuto. Quando lo incontrai per la prima volta, a casa sua, ci mise un po’ a venire allo scoperto, quasi si nascondeva dietro a una poltrona, forse, chissà, temeva il mio giudizio sulle sue scelte erotiche, ma figuriamoci. C’è però un aneddoto curioso che non ho mai raccontato a nessuno. Quando io feci il primo disco, Dalla chiamò a casa mia. Io ero fuori, rispose mia madre. Lucio disse che avrebbe voluto invitarmi in barca con lui e con il suo team. Mia madre rispose: “Signor Dalla, Gianluca non è mica il tipo”. Cioè capisce che mia madre, anche se involontariamente, stava azzoppando la mia carriera sul nascere? Penso che se Dalla avesse continuato a starmi vicino la mia vita sarebbe stata diversa».

Una figura paterna?
«Un amico che sa dare consigli. Non sempre sono stato circondato da persone amiche e che hanno fatto i miei interessi. Non posso fare nomi, ma in passato ho avuto collaboratori che mi hanno danneggiato molto. Sono scomparsi tanti soldi intorno a me. Oggi scelgo con maggiore cura la mia squadra, ho un team fantastico. Ma lo sa che mi hanno ricomprato le chitarre?»

Perché lei le aveva rotte?
«No, me le avevano rubate. Per un musicista come me il furto delle chitarre è come la morte. Io poi ho alcuni pezzi rari, ci tengo molto, do loro dei nomi assurdi, ci vivo insieme. Un giorno me ne rubarono diverse e mi sembrò di impazzire. Qualche volta mi sembra di impazzire, sa? Forse è perché ho paura di non avere il tempo di riuscire a dire tutto quello che ho ancora da dire. E, mi creda, è tanto. Io devo ancora fare tutto».

Quando si innamora, com’è Gianluca Grignani?
«Non ho mai amato in vita mia».

Ma se ha scritto canzoni d’amore che conosciamo tutti.
«Ho scritto canzoni d’amore per trovare qualcuno da amare. Ma io sono vergine su quel territorio, non credo di aver mai amato nei modi che ho in testa. Non voglio parlarne, però».

Me lo racconta un sogno ricorrente?
«Sogno di comporre un numero di telefono preciso, ma dall’altra parte non risponde nessuno. Il numero è questo 33…».

E a chi appartiene quel numero?
«Non glielo dico».

Un incubo surrealista, comunque.
«Ma la villa in cui vivo è inquietante. Il colle di San Colombano è intriso di leggende esoteriche. A volte mettermi a pensare non mi fa bene. E se suono la chitarra mi incazzo perché la musica per me è rabbia, vita, sangue. E ho paura».

Di che cosa?
«Ho una cazzo di paura di non esserci più. Ma non parlo della morte. Del non esserci, del perdermi, del diventare qualcosa d’altro. È difficile da spiegare, gli artisti ci sono e non ci sono. Qualche tempo fa mi ero rassegnato: verrò capito solo dopo morto, mi dicevo. Oggi però so che non è così, che io posso vivere e fare ancora tanto».

Che cosa diceva la poesia che lei scrisse a sei anni?
«Un piccolo fiore splende alla luce del sole, sembra dire al sole: splendi, oh sole, sempre più in alto, col suo piccolo cuore giallo e i suoi petali rosa».

È una poesia luminosa, quasi estiva.
«Lo sa qual è un altro mio sogno? Immensi campi di grano. Amo Van Gogh, sì».

E ricorda a memoria quella poesia così lontana.
«Sì, ma le mie canzoni me le scordo. Qualche volta non mi viene l’incipit, qualche volta è per il fatto che durante i concerti io cambio il testo. Ce ne sono state alcune che ho cantato sempre diverse. Mi diverte così, sono Joker, no?».

Abbiamo parlato del giorno più brutto. E il giorno più bello della sua vita qual è stato?
«Quando è nato il mio primo figlio maschio. Non c’entra il sessismo: quel giorno avevo appena finito un disco, è stato un parto doppio in famiglia. Sono stato felice quel giorno».

E il suo Paradiso, quello alla fine della Destinazione, come se lo immagina?
«Pieno di birra e di donne. Ma non è mia: l’ho rubata a Sean Penn».

26 settembre 2022 (modifica il 26 settembre 2022 | 07:05)

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, 2022-09-26 05:13:00, Il cantautore: «Pensavano fossi morto, giravo il Sudamerica. Volevo fare la scuola d’arte e i miei genitori me lo impedirono, temevano che lì girassero le canne. Ma io con le canne avevo iniziato poco più che bambino», Roberta Scorranese

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