di Paolo Coccorese
Lo scrittore si racconta in vista dell’uscita del documentario sulla sua «vita da giornalista»
Gianni Minà, lei ha scritto di essere nato per merito di una «gita a Torino». Perché?
«Mia mamma, maestra elementare , era andata in gita a Torino con la sua classe e incontrò mio padre al Museo della Storia patria, all’interno della Mole Antonelliana. Fu un colpo di fulmine, mio padre scrisse la sua dichiarazione d’amore attraverso la spedizione di alcune cartoline, tutte con la stessa immagine, la Mole di Torino. Si sposarono subito dopo».
Che rapporto ha con la città? Era troppo stretta per un giramondo come lei?
«No, in realtà quando ero un ragazzo ci siamo trasferiti a Roma con la mia famiglia, per motivi di lavoro di mio padre; non sono andato via perché mi stava stretta».
Suo padre era un avvocato della Reale Mutua e della Figc. È stato un gerarca fascista, ma ha anche salvato un partigiano dai rastrellamenti. Questo suo passato gli pesava?
«Come la maggior parte degli italiani era fascista, ma dopo le leggi razziali prese le distanze. Aiutò molti ragazzi antifascisti, rischiando la sua vita, ma non aveva, non l’ha mai avuta, un’aria da eroe. Era, al contrario, un uomo a cui piaceva far sorridere la gente. Purtroppo, è scomparso troppo giovane, per un ictus, improvvisamente».
Ha perso suo nonno per colpa di un bombardamento. Oggi accendiamo la tv e vediamo le immagini della guerra, abbiamo dimenticato quanto è terribile?
«Sì, è così. Era un ferroviere e stava in ufficio. Lo uccise una bomba, insieme ai suoi colleghi. Ormai nelle guerre muore sempre di più la povera gente ed è terribile constatare la follia umana».
Ha studiato al liceo D’Azeglio. Cosa ricorda di quegli anni?
«Mio padre mi aveva iscritto al leggendario liceo D’Azeglio e mi ricordo che il nostro preside non dimenticava di ricordare sempre: “Questo è stato il Liceo di Cesare Pavese… Ma anche degli Agnelli”. Ma al mitico D’Azeglio, sono passati da Vittorio Foa a Pavese stesso, da Giulio Einaudi e Norberto Bobbio a Giancarlo Pajetta, da Primo Levi a Fernanda Pivano. Ma l’elenco è ancora lunghissimo…».
È vero che è rimasto in contatto con i suoi amici di infanzia delle case di corso Orbassano?
«Si, siamo rimasti uniti, legati dalla stessa amicizia che ci saldava, grazie anche a Giovanni Pische. Era un eroe di guerra, un aviatore, rimasto paralizzato, perché fu ferito durante un’escursione area nella battaglia di Pantelleria. Giovanni aveva una decina d’anni più di noi e ci unì tutti. In quegli anni, infatti, i padri lavoravano molto e spesso erano lontani e in qualche modo assunse su di sé un ruolo genitoriale, o almeno di fratello maggiore».
Che rapporto aveva con Gianni Agnelli? Vi siete mai scontrati? Ha raccontato che condividevate la passione per la musica. Questo non servì a convincerlo quando gli portò Celentano che voleva fare il sequel di Yuppi du.
«E perché avrei dovuto scontrarmi con lui? Avevo rapporti cordiali, e quella volta con Adriano, anche se l’Avvocato non finanziò il suo film, ci divertimmo molto».
Dal tifo per il Grande Torino, agli scontri con l’ex presidente Gianmarco Calleri quando lei era alla direzione di Tuttosport. Quali caratteristiche deve avere il «perfetto» tifoso del Toro?
«Non lo so. Io sono di fede granata, lo sono sempre stato e lo sarò sempre. Più che un tifo è una fede, mi lega al ricordo di mio padre che mi portava, insieme a mio fratello, fin da piccolo a vedere la nostra squadra del cuore al Filadelfia».
La Juventus ha fatto meglio ad acquistare Cristiano Ronaldo o a rivenderlo?
«Non lo so e non mi interessa il calcio da parecchio tempo. A malapena vedo le partite del mio Toro».
Accompagnò Muhammad Alì a Torino nel 1991? All’hotel Sitea, uno dei più importanti alberghi della città, conservano la sua dedica sul diario degli ospiti come una reliquia. Ha dormito in città tre giorni, si dice, per evitare pressioni. Cosa ricorda di quel periodo in compagnia del grande campione?
«Nel ’91 in occasione del Telethon invitai Muhammad Alì. Già aveva il linguaggio rallentato, ma il ricordo più forte fu alla Moschea di Milano, dove, di fronte ai fedeli, fece uno sforzo enorme per parlare davanti a loro».
Per anni ha iniziato gli incontri pubblici chiedendo: «C’è qualcuno in sala che mi può smentire?». Oggi nell’era delle fake news e della velocità quanti colleghi potrebbero sfidare il pubblico come faceva lei?
«Oggi non è più possibile controllare la veridicità della notizia, sono troppe, troppe tutte insieme e con poco tempo per la verifica. È un problema serio: nei quotidiani spesso si decide di pubblicare la notizia dando un’occhiata ai social, ma i social sono dettati dagli algoritmi, per cui a parte le fastidiose prime pagine fotocopia, la scelta delle notizie è anche dettata dall’urgenza di arrivare primi sacrificando l’approfondimento. È l’evoluzione (o involuzione?) di un giornalismo che non mi appartiene».
Con Loredana Macchietti, sua moglie e autrice del lungometraggio, sta lavorando al documentario sulla sua «vita da giornalista». A chi vuole dedicarlo?
«Alle mie figlie e alle nuove generazioni, a cui hanno tolto il gusto di sognare un loro futuro».
PS: l’unica domanda a cui Minà non ha voluto rispondere riguardava Maradona. Gli avevamo chiesto se la vita del calciatore sarebbe stata diversa se avesse giocato alla Juve come voleva Agnelli. Parafrasando il titolo deli libro che il giornalista gli ha dedicato, la loro amicizia non sarà mai «una cosa comune», nonostante la scomparsa del campione nel 2020.
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20 marzo 2022 (modifica il 22 marzo 2022 | 12:44)
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, 2022-03-22 11:39:00, Lo scrittore si racconta in vista dell’uscita del documentario sulla sua «vita da giornalista», Paolo Coccorese