Gli studenti col motorino interno, che prima fanno e poi pensano. Le punizioni? Solo frustrazione, come agganciarli alla classe. INTERVISTA a Giovanni Mento

Attenzione e neurosviluppo, tra sviluppo tipico e atipico, come si differenzia l’azione educativa? Ne abbiamo parlato con il Professor Giovanni Mento psicologo e docente presso l’Università di Padova, coordinatore del gruppo di ricerca NeuroDev.

Professor Mento, in una precedente intervista abbiamo parlato di cosa fosse l’attenzione e del suo funzionamento. Tuttavia a volte ci sono dei funzionamenti atipici come nel caso dell’ADHD, del Disturbo da Deficit di Attenzione ed Iperattività, un disturbo del neurosviluppo. Ci spiega cosa accade nelle varie fasi di crescita?

Innanzitutto una brevissima introduzione su cos’è l’ADHD che, come diceva lei, è un disturbo del neurosviluppo, una condizione non identificabile come una malattia o una patologia in senso stretto, ma è una traiettoria di sviluppo atipica che caratterizza una parte abbastanza rilevante della popolazione a livello mondiale, parliamo di circa il 4-5% secondo le ultime stime attendibili. La caratteristica di queste persone, e uso il termine persone perché non si tratta solo di bambini ma da un po’ di tempo abbiamo capito che è una condizione che, essendo legata al neurosviluppo, tende a mantenersi fino all’età adulta, si verifica un cambiamento, una trasformazione nel modo in cui esprimono questa condizione.

Questo è dovuto in parte sulla base del contesto in cui vivono e agiscono, sia culturale in senso lato che del microcontesto familiare, lavorativo e così via, in parte proprio perché c’è una trasformazione che ha a che fare con i cambiamenti neurobiologici che normalmente avvengono nel corso del neurosviluppo. La caratteristica principale che di solito si osserva è la compresenza di almeno due assi principali che sono da una parte quello della disattenzione, parliamo di persone che hanno una difficoltà che va al di là di quella normale che possiamo avere legata alla variabilità individuale, quindi una incapacità a mantenere il focus dell’attenzione a lungo, o comunque per tempi sufficientemente lunghi, per l’apprendimento o per lo svolgimento delle normali mansioni, ma anche per le relazioni sociali, mentre dall’altra parte abbiamo degli aspetti che sono più legati al comportamento, quindi più osservabili dal punto di vista comportamentale, che sono quelli legati alla manifestazione di aspetti di iperattività anche motoria. Una delle cose che classicamente viene riportata dai genitori in fase di diagnosi è quella del bambino che ha il motorino interno, il bambino che non sta fermo un attimo, e anche un po’ dell’impulsività, ovvero la tendenza prima a fare e poi a pensare.

Ovviamente si tratta di bambini che non solo sono normalmente intelligenti, spesso hanno un livello di intelligenza superiore alla media, ma che hanno anche apprese quelle che sono le regole del vivere comune che però fanno fatica ad utilizzarle. Tornando alla domanda, un aspetto fondamentale è che da una parte abbiamo dei criteri e una manualistica che ci permettono di fare una diagnosi, che sono condivisi con la letteratura internazionale, e nella diagnosi dobbiamo verificare se questi criteri sono soddisfatti, però al netto di questo un aspetto veramente fondamentale di cui non sempre si tiene dovutamente conto è che il modo in cui questa condizione viene espressa cambia fortissimamente da persona a persona.

Quindi dire che due persone hanno l’ADHD fondamentalmente è come dire che due persone indossano gli occhiali, nel senso che entrambi sono caratterizzati dal fatto di avere problemi di vista, ma poi sono persone molto diverse tra loro. Questo significa che, a parità di età, c’è una prima enorme variabilità individuale dove possiamo trovare, ad esempio, il bambino che esprime questa condizione prevalentemente con la componente di disattenzione, in pratica il bambino con la testa tra le nuvole e che tende a perdersi facilmente rimanendo sempre un po’ indietro, dall’atra parte possiamo trovare, invece, dei bambini che esprimono prevalentemente la componente più esternalizzante, sono i bambini che sono più comportamentali, di cui ti accorgi chiaramente in classe perché spesso non riescono a stare seduti e a rispettare quelle che sono le normali regole del vivere comune.

In più c’è una variabilità fisiologica che è legata all’evoluzione di per sé, al fatto che crescendo c’è uno sviluppo cognitivo che segue una sua traiettoria, in funzione anche delle stimolazioni ambientali, che è il motivo per cui è molto più probabile che in bambini piccoli, quelli che vanno dall’età prescolare fino a tutta la scuola primaria, il disturbo si manifesti prevalentemente con la componente esternalizzante. Ce ne accorgiamo perché è il bambino che fa fatica ad autocontenersi, anche dal punto di vista emotivo.

La diagnosi diventa un po’ più difficile quando passiamo nell’età preadolescenziale e adolescenziale perché cominciano a prevalere componenti legate in parte all’oppositività e un po’ meno alla componente motoria, quindi sono bambini che dopo po’ spesso imparano ad autogestirsi in alcuni aspetti, soprattutto se sono seguiti a sufficienza. Un altro aspetto legato all’ingresso nell’età giovane/adulta, per cui quello che spesso si osserva è una manifestazione sintomatologica che tende a deviare verso traiettorie che non immediatamente hanno a che fare con l’ADHD, porta di frequente a dei comportamenti che sono legati ad abuso di sostanze o comportamenti di devianza. Chiaramente questa non è affatto la regola, però quello che voglio dire è che il modo in cui si manifesta l’ADHD durante la fase di crescita può cambiare molto. Ciò significa che la diagnosi di ADHD si basa su alcuni criteri precisi, ma poi è una diagnosi dinamica che deve tenere conto di come la persona cambia in sintonia con l’ambiente in cui vive e si relaziona.

Lei prima accennava ad una caratteristica impulsiva, ci spiega cos’è il controllo cognitivo e come si struttura negli alunni ADHD?

Il controllo cognitivo fondamentalmente ha a che fare con la nostra capacità di regolare non solo il nostro comportamento, ma anche il nostro pensiero e le nostre emozioni, quindi il modo in cui noi tendiamo a reagire agli eventi e anche a prevedere le reazioni ambientali sulla base del nostro comportamento in funzione, appunto, del contesto ambientale. Tecnicamente il controllo cognitivo è stato studiato nel corso degli anni attraverso alcune componenti, alcune funzioni mentali che identifichiamo come costrutti, cioè delle entità che in qualche modo sono misurabili attraverso strumenti standardizzati, in particolar modo una delle componenti che spesso vediamo essere disfunzionale nel caso dell’ADHD è la parte legata al controllo inibitorio, la capacità di gestire l’intrusività dei pensieri nel momento in cui una persona deve svolgere un’attività continuativa nel tempo.

Un classico esempio è il bambino che in aula non riesce a restare concentrato su quello che la classe sta facendo, quindi non solo su quello che l’insegnante sta dicendo, ma anche su quella che può essere l’attività di gruppo in quel momento, perché tende a distrarsi molto facilmente sulla base di elementi distrattori dell’ambiente. L’altro aspetto fondamentale è la flessibilità cognitiva, cioè la capacità di cambiare prospettiva sulla base delle richieste ambientali. Un aspetto tipico di questi bambini e l’iperreattività emotiva, il fatto che basta poco, per dirla in parole povere, a mandarli su di giri dal punto di vista emotivo, inoltre c’è una grande difficoltà ad adattarsi, a regolare le proprie emozioni sulla base del cambiamento del contesto.

Classicamente una delle cose che noi abbiamo anche osservato, con gli studi fatti in collaborazione con le scuole, è che bambini, non necessariamente con la diagnosi di ADHD, ma con una difficoltà abbastanza importante sul controllo cognitivo, è quello di riuscire ad autoregolarsi flessibilmente nel momento in cui si passa da un contesto di gioco, quale può essere l’attività motoria, al ritorno in classe. Quindi cercare di cambiare prospettiva sulle regole che si devono tenere in classe per adattarsi al fatto che ci si trova in un contesto che in quel momento richiede un altro modo di comportarsi. Il controllo cognitivo è quindi un elemento fondamentale.

Detto questo c’è da fare un chiarimento, che ritengo importantissimo, ovvero il fatto che quando si fa una diagnosi ADHD la diagnosi la si fa normalmente sulla base di alcuni criteri comportamentali che si possono osservare sulla base di un’osservazione diretta o su quello che ci raccontano gli insegnanti e i genitori, il modo in cui poi un bambino funziona dal punto di vista neuropsicologico, che è il profilo di funzionamento del suo controllo cognitivo, è un aspetto che va indagato ad personam, significa che non basta porre una diagnosi di ADHD per pensare di avere compreso come funziona quel bambino in classe o in altri contesti, da questo punto di vista la diagnosi funzionale, quella che si chiama diagnosi di secondo livello, è un passaggio fondamentale, non solo per capire bene qual è il bambino che abbiamo davanti, perché potremmo avere dei bambini che magari hanno più difficoltà sul controllo inibitorio e meno difficoltà su altri aspetti di funzionamento mentale, quindi dei punti di forza, ma diventa fondamentale nel momento in cui vogliamo capire come interfacciarci con questo bambino, sia come genitori che come comunità educante che come insegnanti in classe. Quindi per capire come aiutare il bambino dobbiamo capire come funziona, al di là dell’etichetta, che è sempre il punto di partenza e mai il punto di arrivo.

Educare bambini e ragazzi ADHD richiede una formazione specifica, Quali sono i suggerimenti che si sente di dare ai docenti in particolare diversificandoli per le varie fasce d’età?

Il primo suggerimento che mi sento di dare è di cercare di evitare quello che spesso viene facile, cioè di attivare automaticamente una sorta di rappresentazione mentale del bambino partendo dalla diagnosi. Nel momento in cui sappiamo, ad esempio, che in classe ci sia un bambino con la diagnosi di ADHD, ma lo possiamo affermar per tutte le altre casistiche come ad esempio per la certificazione di un disturbo dell’apprendimento o per una sindrome dello spettro dell’autismo, bisogna evitare di attivare immediatamente una sorta di quadro mentale di che cosa ci si dovrebbe aspettare da quel bambino, perché spesso finisce che si tende a voler confermare l’idea che si ha del disturbo più che la comprensione del bambino che abbiamo davanti.

Tutto deve passare per la capacità di capire veramente chi è quel bambino, il che richiede uno strettissimo collegamento con chi ha la presa in carico dal punto di vista clinico del bambino, quindi di chi si è occupato non solo della diagnosi ma poi di impostare un percorso di intervento, che possibilmente deve essere reso noto alla scuola e di conseguenza all’insegnante, ovvero qual è il livello di funzionamento di quel bambino, quali sono le circostanze che possono migliorare o peggiorare alcuni tipi di comportamenti e sulla base di questo si deve fare un discorso di intera comunità educante, significa coinvolgere i genitori, i clinici di riferimento e la scuola.

Il bambino deve essere sempre e comunque al centro di una comunità educante che si prende cura di lui partendo dal livello di funzionamento. Poi il punto di vista un po’ più pratico, se volgiamo, è quello di cercare di mettere in atto il più possibile delle strategie, dal punto di vista didattico e pedagogico, che tendano ad “agganciare” il bambino, perché uno degli aspetti più rilevanti è che di frequente questi bambini tendono ad essere facilmente sganciabili dalla classe, nel senso che sono dei bambini che tendono a perdersi facilmente, soprattutto nel caso di bambini che sono più sul versante della disattenzione di cui spesso non ci si rende conto perché non disturbano in classe, quindi apparentemente sono bambini che non sono un problema per la classe dal punto di vista della gestione, ma sono bambini che comunque rendono molto al di sotto di quello che potrebbe essere il loro livello in base alla loro capacità intellettiva, alle loro risorse sociali, emotive e così via.

Quindi fondamentale è agganciare il bambino il più possibile, lavorare possibilmente sempre con dei rinforzi positivi, evitando i rinforzi negativi, anche perché spesso la punizione serve a ben poco e può essere un elemento di frustrazione generale della classe, perché di fronte a situazioni del genere difficilmente si riesce a far comprendere il perché un bambino non viene punito ugualmente a quanto potrebbe essere fatto in altri casi. È proprio qua che entra il discorso del collegamento con l’aspetto clinico e funzionale, in questi casi il rinforzo negativo purtroppo ottiene l’effetto contrario di quello che si dovrebbe sperare.

La Token Economy, ad esempio, è una strategia, una tecnica di rinforzo positivo in cui si procede per piccoli obiettivi cercando di responsabilizzare il bambino dandogli un ruolo attivo all’interno della classe, per valorizzare all’interno delle sue capacità e competenze il suo ruolo attivo. Anche l’apprendimento cooperativo è fondamentale, ovvero quello di cercare di inserire il bambino all’interno di gruppi di lavoro, poi dipende chiaramente dall’età di riferimento, ma il punto è cercare di far sentire il bambino come parte di un gruppo e mai come il bambino che è l’elemento disturbante della classe. Questi sono dei consigli di massima, poi chiaramente è fondamentale sempre tenere conto del punto di vista degli insegnanti ed è fondamentale il dialogo costruttivo con tutte le parti in causa.

Un’ultima domanda. Oltre alla formazione è importante la strutturazione dei setting scolastici e un percorso con figure specialistiche di supporto. Ci da alcuni suggerimenti?

Diciamo che a mio avviso gli attori che dovrebbero interagire nel benessere del bambino sono diversi. Abbiamo chiaramente la famiglia e la scuola in primis, però un aspetto veramente importante è che coloro che hanno gli strumenti per comprendere bene il funzionamento del bambino dal punto di vista della sua struttura cognitiva, emotiva e sociale sono i professionisti, i quali devono essere assolutamente chiamati in causa nei meccanismi didattici. Non si deve mai pensare che ci sia l’ente che emette la diagnosi e redige la relazione, che si tratti di sanità pubblica o privata non fa differenza, e poi la scuola che è chiamata ad interpretare quella relazione e di conseguenza attivare un PDP piuttosto che altri tipi di interventi mirati.

Questo dovrebbe essere fatto di concerto, ci sono anche dei tavoli che sono pensati proprio per promuovere l’incontro. Un altro aspetto fondamentale, forse poco sfruttato, almeno in Italia al momento, è la presenza dello psicologo scolastico, che è una figura che dovrebbe operare all’interno della realtà scolastica, quindi conoscendo anche le dinamiche interne, dal punto di vista sociale, amministrativo, dell’offerta didattica e così via, e dovrebbe fare da trait d’union ed essere la persona che si fa carico di promuovere l’integrazione di quello che le varie figure possono offrire per promuovere il benessere del bambino. In poche parole, la riuscita di un percorso scolastico è di conseguenza la riuscita di un percorso individuale, perché non dobbiamo mai dimenticarci che alla fine, per quanto questi bambini tendono ad essere al centro dell’attenzione, perché sono degli elementi disturbanti in alcuni casi, purtroppo sono loro i primi che pagano il fatto di avere una grande difficoltà a regolarsi in funzione del contesto, e questo va spesso a scapito delle loro capacità di autostima e di autoefficacia.

Quindi se noi vogliamo promuovere delle traiettorie di sviluppo individuali, prima ancora che scolastiche, dobbiamo mettere il bambino al centro del nostro mondo e non pensare che debba essere necessariamente lui ad adattarsi alle dinamiche che lo circondano, non perché questo non sia in assoluto giusto, perché è quello che viene chiesto a tutti noi nella società, ma perché parliamo di bambini che hanno una difficoltà a farlo che va al di là della normale difficoltà che tutti noi potremmo avere. Questi sono bambini che più degli altri capiscono cosa dovrebbero fare, ma hanno una grande difficoltà a mettere in atto delle forme di funzionamento cognitivo, di adattamento comportamentale e di autoregolazione emotiva. Pur volendo spesso non ce la fanno. Parlando poi del punto di vista della gestione fisica della classe, questo è un aspetto che deve essere gestito insieme ai referenti della didattica, va gestito con l’insegnate che è in classe.

Uno degli aspetti fondamentali è la grande capacità di distrazione che questi bambini hanno, quindi bisognerebbe cercare di favorire degli elementi strutturali, di organizzazione della classe anche dal punto di vista fisico, che tendano in qualche modo a non incentivare la distrazione, già questo da solo potrebbe essere già un elemento importante. Questo significa che se sono in un ambiente percettivamente molto affollato, un ambiente che mi offre molti input visivi, piuttosto che uditivi, stiamo di fatti rendendo più difficile ad una persona, che ha delle sue difficoltà importanti, di stare qui ed ora con noi in classe. Quindi il primo elemento è quello di cercare, per quanto è possibile, di evitare eccessive distrazioni.

L’altro aspetto è quello di cercare di concentrare l’attenzione della classe intera e del bambino su degli elementi che non siano unidirezionali, come nel caso della lezione frontale, con l’insegnante che sta seduto alla cattedra e tutto il resto della classe che sta seduto dall’altra parte, è un’impostazione classica che però ultimamente è stata un po’ messa in discussione. Anche dal punto di vista dell’insegnamento universitario, che mi chiama in causa personalmente, da diversi anni stiamo sperimentando delle modalità didattiche alternative, come ad esempio la flipped classroom dove si invertono i ruoli, che può incentivare la motivazione e facilitare l’utilizzo di risorse attentive.

Quindi evitiamo tutto quello che vuol dire apprendimento passivo, distrazioni dell’ambiente, e cerchiamo di lavorare sul motivare e non soltanto con i voti e con l’idea del “devi far bene altrimenti ti boccio”, perché sono elementi che non riescono a fare molto leva, ma cercando di lavorare sulle emozioni, cercare di sviluppare la passione per quello che si sta insegnando coinvolgendo in maniera attiva tutti i bambini. Da questo punto di vista tutti ne trarranno beneficio, ma soprattutto coloro che per costituzione, per modo di essere, per condizione fanno fatica in maniera maggiore rispetto agli altri e che sono quelli che hanno molto più bisogno di essere coinvolti.

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