Gorbaciov verrà sepolto insieme con la moglie Raissa a Mosca

di Michele Farina

L’incontro all’università, i nonni nel gulag, la complicità, la figlia, la leucemia che li ha separati nel 1999, i soprannomi feroci. E le scarpe bianche prese in prestito per le nozze

«Ti ricordi se abbiamo poi ridato a Nina le scarpe bianche che mi aveva prestato per il nostro matrimonio?». Che modo meraviglioso di suggellare un amore. Sono le ultime parole pronunciate da Raissa, prima di morire. Un anno fa, fine agosto 2021, al Teatro delle Nazioni di Mosca davano le ultime repliche di «Gorbaciov». Grande successo, biglietti fino a 250 euro. Una sera in platea, a seguire la pièce del regista lituano Alvis Hermanis, c’era anche Mikhail: ormai novantenne, con la faccia gonfia, il sorriso spento.

In precedenza gli avevano fatto leggere la sceneggiatura e lui, Misha come lo chiamava la moglie, morta di leucemia nel 1999 all’età di 67 anni, non aveva cambiato una virgola: «Questa è la libertà, dobbiamo abituarci». In una scena cruciale, a teatro e nella storia, ci sono loro due, marito e moglie, che tornano a Mosca reduci dallo stress degli arresti domiciliari in Crimea, dopo il fallito golpe dell’agosto 1991. Mentre la gente festeggia nelle strade, il redivivo e spaurito Gorbaciov sceglie di andare all’ospedale con Raissa, che durante la prigionia ha sofferto un ictus. «Forse è stata la decisione più importante della mia vita politica», scriverà l’ultimo leader dell’Unione Sovietica nelle sue memorie. «Non ero sposato con il Paese, con la Russia o con l’Unione Sovietica. Ero sposato con mia moglie, e quella notte andai con lei all’ospedale».

Le canzoni

Il leader che pose fine alla Guerra Fredda, scomparso all’età di 91 anni, aveva dedicato anche l’ultimo volume delle sue memorie, pubblicate nel 2013, all’adorata Raissa. Steve Rosenberg della Bbc racconta di quando Gorbaciov gli mostrò il libro dopo un’intervista nel suo studio moscovita, un grande ritratto di Raissa alla parete e le fotografie di lei sulla scrivania. Nella prima pagina, parole tratte dal suo diario, un anno dopo la morte della moglie, avvenuta in un ospedale in Germania. «La mia vita ha perso il suo significato principale. Non ho mai sentito una così profonda solitudine». E poi, sfogliando il volume, Rosenberg ricorda gli occhi di Gorby che si illuminavano alle vecchie immagini di loro due insieme: le vacanze, le riunioni di famiglia, i viaggi ufficiali all’estero. E i ritratti preferiti: quelli in bianco e nero scattati prima delle nozze che si celebrarono a Mosca nel 1953, poco dopo essersi conosciuti, quando erano ancora due studenti (Misha in Legge, Raissa in Filosofia) così poveri che per la cerimonia lei dovette farsi prestare le scarpe dall’amica Nina. Con il libro in mano e il giornalista davanti, Gorby intona una canzone del tempo di guerra. Le parole che un soldato rivolge all’amata: «Nella notte buia, amore mio, lo so che sei sveglia e ti asciughi furtivamente una lacrima: come amo i tuoi occhi, come vorrei premere le mie labbra sulle tue». Il vecchio statista a questo punto si apre a uno di quei sorrisi che erano stati un simbolo della sua ascesa al potere, il segno della svolta «umana» impressa ai vertici dell’Urss. Ma Gorby non parla di politica, la politica è solo uno sfondo appannato. I sorrisi rimasti sono tutti per lei, per loro: «Raissa amava quando cantavo».

La complicità

Ora che riposeranno insieme a Novodevichy, nel cimitero dei grandi a Mosca, è inevitabile riunirli in un ritratto al tempo stesso personale e collettivo. Il nuovo segretario del partito comunista girava il Paese accanto alla moglie, cosa mai vista prima nella storia dell’Unione Sovietica (e in quella della Russia attuale) così influenzata dal principio del domostroi, il rigido codice patriarcale per cui le donne devono essere raramente viste o sentite. Raissa, invece, era una «presenza» ineludibile.

Lei figlia di un ingegnere ferroviario che girava per il Paese, nata nel 1932 in un villaggio della Siberia, studentessa brillante, nonno scomparso nei gulag di Stalin (come quello di Gorbaciov), un dottorato in sociologia all’Istituto Pedagogico Lenin di Mosca con una tesi sulla vita quotidiana dei contadini, l’incontro con Misha, le nozze immediate, la scelta di seguire il marito nella regione originaria di Stavropol, non lontano dalla Crimea, dove il futuro leader comincia la sua carriera nel partito dopo i primi passi nelle strutture dell’università e dove nasce l’unica figlia, Irina. Poi il ritorno a Mosca nel 1978: Raissa riprende a insegnare prima di entrare nello staff del marito come collaboratrice senza stipendio. «Sono molto fortunata con Mikhail», dirà anni dopo in un’intervista. «Siamo molto amici, o meglio: tra noi c’è una grande complicità».

Tè e caviale con Nancy Reagan

Bastava vederli insieme per capirlo. All’estero il mito Gorbaciov è un tandem. I media occidentali li avevano già scoperti prima dell’elezione alla Segreteria, in occasione del viaggio a Londra per incontrare Margaret Thatcher. «Con quest’uomo si può lavorare», disse la Lady di Ferro. E con quella donna si poteva anche litigare: Nancy Reagan nelle sue memorie parla di una Raissa «insopportabile», in occasione di un tè con il caviale offerto a Ginevra per il primo storico summit del disgelo tra le superpotenze piuttosto che durante la visita alla Casa Bianca, quando Raissa liquidò la residenza con parole poco diplomatiche: «Questa più che una casa mi sembra un museo».

Compagna Gucci

Molto odiata e poco amata in patria negli anni del trionfo, invidie e gelosie. I Gorbaciov furono paragonati a Nicola II e Alessandra, gli ultimi zar. Fiorivano le freddure su loro due a letto: «Misha, che effetto fa dormire con la moglie del leader dell’Urss?». O sulla passione di Raissa per i marchi della moda francese e italiana, che le valsero il soprannome di «Compagna Gucci». Parole ancora più dure: il reporter del New York Times che l’anno scorso recensì lo spettacolo al Teatro delle Nazioni racconta che suo nonno chiamava Raissa Gorbaciova «topo», «quel topo», giocando sull’assonanza del nome con la parola russa che vuole dire ratto. Indifferenza e compiacimento li hanno accompagnati dopo la caduta, dopo quella notte all’ospedale di Mosca, le titubanze politiche, i diktat di Eltsin, i silenzi di Putin. Nuovi leader a Mosca hanno preso la scena con compagnie assenti o invisibili, in omaggio al principio maschilista del domostroi.

In un altro Paese, in un’altra storia, Raissa avrebbe forse percorso la via di Hillary Clinton? La malattia le ha tolto ogni possibilità di sognare o di godersi la pensione, di giocare con i nipoti, ascoltare Misha cantare la canzone del soldato o Yesterday dei Beatles. Gli ultimi anni sono stati una corsa angosciata e amorevole: viaggi all’estero per racimolare soldi, la Fondazione creata per combattere la leucemia, degli altri e anche la sua. Anche la comparsata di Gorby a San Remo sul palco di Fabio Fazio, con la moglie in prima fila, fu mossa da quell’esigenza. Era il 1999, pochi mesi prima che Raissa morisse. Una coppia di potere e dolore. E soprattutto una storia d’amore. Alvis Hermanis, il regista che l’ha messa in scena, l’ha raccontata così, senza dimenticare la libertà che la parabola dei Gorbaciov, volenti o nolenti, ha prodotto non solo nel suo Paese di origine, la Lituania. «Questa è la libertà, e bisogna abituarsi», diceva Mikhail a proposito della sceneggiatura che altri avevano scritto sulla sua vita, la loro vita. Abituarsi alla libertà? Non in Russia, non ancora.

31 agosto 2022 (modifica il 31 agosto 2022 | 15:06)

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