di Eva Cantarella
Atene al massimo del suo splendore si interrogava sui rischi del cattivo uso delle conquiste tecnologiche. L’etica della responsabilità umana in Sofocle: la stessa di fronte alla quale ci troviamo oggi
cosa ci riserva il futuro? Domanda inevitabile e angosciosa, di fronte alla minaccia di una guerra mondiale combattuta con armi che il progresso scientifico e tecnologico ha dotato di poteri terrificanti, micidiali per la sopravvivenza nostra e del pianeta. È un momento, questo, che segna una svolta drammatica di fronte a un interrogativo che, tornando indietro nel tempo, ha alle spalle una vita documentata, nei millenni, a partire dalle voci dei nostri più lontani antenati occidentali. Inutile a dirsi, i greci, le cui voci giungono dalla Atene del V secolo a.C., il momento del massimo potere politico e splendore culturale della città, nella quale — a proposito della nostra domanda — si può presumere che al futuro si guardasse come al seguito di un cammino in ascesa verso una vita sempre più facile, più ricca e più felice. La Atene dalla quale giungono quelle voci era la città che si avviava al momento più alto della sua esistenza, quello descritto da Pericle nel 430 a.C., nella celebre orazione in onore dei morti del primo anno della guerra del Peloponneso. Anche se indiscutibilmente molto idealizzato, quel discorso descriveva comunque un momento nel quale le condizioni di vita dei greci, o quantomeno dei più privilegiati, avevano raggiunto un benessere che non poteva che far immaginare un futuro sempre più fortunato. Eppure, per quanto sorprendente possa sembrare, già allora cominciava a farsi sentire qualche interrogativo, qualche dubbio sul futuro che riguardava, in particolare, i possibili effetti del progresso. E a farsene portavoce fu un grande tragico: Sofocle.
Ma andiamo con ordine, vale a dire in ordine cronologico. Partiamo da Eschilo, un altro dei grandi tragici, e dal suo «Prometeo incatenato», andato in scena in una data incerta (forse il 469 a.C.), parte di una trilogia che comprendeva un «Prometeo portatore di fuoco» e un «Prometeo liberato», andate perdute. E nella tragedia superstite Eschilo affida a Prometeo una famosa celebrazione dei benefici delle arti e le tecniche (technai).
Nonostante appartenesse a una stirpe divina, a suo tempo sottomessa da Zeus (in quanto figlio del Titano Giapeto), Prometeo aveva commesso un grave errore, per il quale Zeus aveva deciso di sottoporlo a una terribile punizione: aveva rubato agli dèi il fuoco, che solo questi possedevano, per farne dono ai mortali, consentendo loro di iniziare la via dell’incivilimento e del progresso: cosa, questa, per Zeus inaccettabile. Al punto che, per punire Prometeo, aveva incaricato Kratos e Bia (Forza e Violenza) di condurlo sulle montagne agli estremi confini del mondo e incatenarlo alla roccia con nodi di ferro indissolubili: e così lo troviamo, nella tragedia, dove — lungi dall’essersene pentito — ricorda con orgoglio il suo gesto in alcuni celebri versi nei quali rivendica i suoi meriti nei confronti dell’umanità per i benefici che questa ne aveva tratto: senza il fuoco essi non avrebbero conosciuto le technai e non avrebbero avuto gli strumenti che avevano consentito loro di intraprendere la via del progresso: «Un tempo — egli dice — essi (i mortali) non conoscevano dimore di mattoni illuminate dal sole, né l’arte di lavorare il legno: si scavavano tane sottoterra, come le formiche, nel fondo di antri senza sole. Non avevano segno sicuro dell’inverno o della primavera fiorita o della fruttuosa estate, ma agivano senza criterio, sino a quando io insegnai loro a discernere il levare e il tramontare incerto degli astri. E anche i numeri, la massima delle invenzioni, io trovai per loro, e la composizione delle lettere, memoria di tutte le cose, madre di ogni cultura. Io per primo domai gli animali perché obbedissero e sostituissero i mortali nelle fatiche più dure, e resi docili alle redini i cavalli sotto i carri, ornamento di fastosi lusso. Io inventai gli scafi, che con ali di lino errando sul mare portano i naviganti. Ed io, che trovai queste invenzioni per gli uomini, ora, infelice, non ho espediente con il quale sottrarmi a questa tortura… Ma più ancora stupirai a sentir le altre cose, quali arti e quali mezzi io escogitai, il più grande dei quali è questo: se uno si ammalava non aveva rimedio, né cibo né bevanda né unguento. Prima che io mostrassi loro le mescolanze dei rimedi capaci di scacciare ogni morbo per mancanza di farmaci perivano. E inoltre chi potrebbe dire di aver trovato prima di me bronzo, argento, ferro e oro, metalli utili e nascosti sotto terra?… In poche parole ascolta: tutte le arti (technai) dei mortali vengono da Prometeo».
Difficile, alla luce di questa celebrazione, non pensare che gli ateniesi si aspettassero, grazie alle technai, un futuro sempre più felice. E presumibilmente le aspettative di gran parte degli ateniesi erano di questo tipo. Ma vi era anche chi non condivideva l’illimitato ottimismo nell’effetto salvifico del progresso. E a svelarcene l’esistenza, di lì a poco, ecco i versi di Sofocle, che nel 442, a nemmeno trent’anni dalla messa in scena del «Prometeo incatenato», mette in scena l’«Antigone», nella quale, peraltro, nel celebre primo stasimo esalta a sua volta i progressi raggiunti grazie alle tecniche: «Molte sono le cose meravigliose», scrive infatti. Ma attenzione alla parola greca qui tradotta con «meravigliose»: la parola è ta deina. Un termine difficilmente traducibile in italiano: deinos (singolare di deina) è infatti qualcosa al tempo stesso di meraviglioso e di terribile: qual è, come prosegue Sofocle, l’essere umano (anthropos), dando evidentemente alla parola, in questo caso, il valore positivo di mirabile, di straordinario: qual è appunto l’essere umano che, come egli scrive, «attraverso il canuto mare pure nel tempestoso Noto avanza, muovendo tra le onde che ingolfano intorno; e l’eccelsa tra gli dèi, la Terra eterna, infaticabile lavora, volgendo gli aratri di anno in anno, rivoltandola di anno in anno con i figli dei cavalli. E la razza spensierata degli uccelli e le stirpi delle fiere selvatiche, e le creature marine nei lacci delle sue reti avviluppa e fa preda l’uomo ingegnoso; e vince con le sue trappole l’ animale vagante per i monti, e sottoporrà il cavallo dalla folta criniera al giogo ricurvo, e il montano instancabile toro. E da solo apprese parole e pensiero celere come vento e impulsi di civili ordinamenti, e a fuggire geli e i rovesci del cielo di gravi piogge. E mai muove senza risorse incontro ad alcun evento futuro: soltanto Ade non troverà scampo, anche se ha escogitato salvezza da morbi incurabili» sin qui sembra di risentire Eschilo: l’esaltazione delle conquiste fatte dall’umanità grazie alle technai non è meno celebrativa di quelli del «Prometeo incatenato». Senonché, all’improvviso, alla celebrazione si aggiunge un’ inaspettata, grave riserva. Il soggetto non cambia, è sempre l’essere umano, che possiede l’inventiva della techne: ma purtroppo, specifica Sofocle, non sempre ne fa buon uso: «Talora muove verso il male — infatti— talora verso il bene». Con conseguenze radicalmente diverse: «Se vi inserisce le leggi della terra e la giustizia giurata sugli dèi, eleva la sua patria. Ma colui che per sfrontatezza si congiunge al male è senza patria: che questi non sia accolto nella mia casa, che non pensi a me chi agisce in un simile modo». Di colpo, in modo del tutto inatteso, l’argomento passa dal piano generale a quello individuale: da teorico il discorso diventa personale. Sofocle interviene in prima persona, tiene a mettere in luce la sua radicale distanza e il disprezzo per chi delle conquiste tecnico scientifiche fa un uso spregiudicato. Sono parole, queste, che rendono il suo discorso sul progresso radicalmente diverso da quello di Eschilo: Prometeo non è più un eroe benefattore senza ombre.
In Sofocle la techne è cosa della quale l’umanità, facendone cattivo uso, avvia la polis alla distruzione. Il dio è scomparso: civiltà e progresso dipendono dell’uomo. È un’etica laica, quella di Sofocle, che pone al suo centro l’essere umano con la sua capacità di decidere. È l’etica della responsabilità. Quella responsabilità di fronte alla quale ci troviamo oggi, in questo mondo in cui scienza e tecnica sono arrivati a mettere in discussione i confini tra la vita e la morte, e in cui l’uso sconsiderato della techne è arrivato a mettere in pericolo la sopravvivenza stessa del pianeta. Questo mondo, nel quale, compiendo scelte libere e consapevoli, siamo diventati gli arbitri del nostro futuro.
28 marzo 2022 (modifica il 29 marzo 2022 | 06:38)
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