di Giorgia Mecca
Il regista tedesco al Salone del Libro ha presentato il suo ultimo romanzo «Il crepuscolo del mondo»
A settantanove anni Werner Herzog è ancora convinto che l’unico modo che l’uomo ha a disposizione per conoscere il mondo è quello di camminare a piedi. Uno dei suoi più grandi desideri è quello di volare ed è una idea alla quale non ha ancora rinunciato. Nella sua carriera ha visitato spesso il concetto di limite, attraverso l’ipnosi, facendo issare una nave sulla cima di una montagna, visitando le tracce del nostro passato remoto. Non ama essere definito un artista, si sente molto più familiare con il termine atleta; durante il lockdown ha prodotto molto anche se precisa di non essere ossessionato dal lavoro (dormire a lungo mi piace molto). Durante il suo tour torinese per presentare l’ultimo romanzo al Salone del Libro, «Il crepuscolo del mondo», edito da Feltrinelli, è stato anche ospite del Castello di Rivoli, dove ha presentato il film «La cava dei sogni dimenticati» durante un incontro con la direttrice Carolyn Christov Bakargiev.
Ne La cava dei sogni dimenticati lei ha avuto un accesso speciale alla grotta Chauvet, che conserva dipinti risalenti a trentaduemila anni fa. Che effetto le ha fatto guardare così da vicino il nostro passato remoto, le tracce che ci hanno lasciato?
«È stato come un risveglio dell’anima. Quando ero piccolo, avrò avuto dodici o tredici anni, un giorno davanti a una libreria ho notato un libro che aveva un cavallo in copertina, un cavallo all’interno di una grotta. Mi ricordo di aver pensato che non avevo mai visto niente di più bello. Volevo quel libro; per comprarlo ho fatto per tre mesi il raccattapalle in un circolo di tennis e ogni giorno passavo davanti a quella libreria sperando che nessuno me l’avesse rubato. È stata una esperienza incredibile».
Nel film lei domanda a un archeologo se attraverso le tracce ritrovate nella grotta sia possibile comprendere il carattere degli uomini preistorici. Piangevano? Sognavano?
«È impossibile saperlo. Sono passati tantissimi anni e a volte dobbiamo accettare il fatto che non possiamo conoscere tutto. Credo anche che sia impossibile comprendere il motivo per cui gli uomini preistorici lasciassero iscrizioni, forse per comunicare con il futuro».
A Torino ha anche presentato il suo ultimo libro, Il crepuscolo del mondo la storia dell’ultimo soldato giapponese che difese una piccola isoletta delle Filippine convinto che la guerra fosse ancora in corso, mentre invece era finita da vent’anni. Lei ha conosciuto Hiroo Onoda personalmente. Com’è stato possibile?
«Ha interpretato male tutti i segnali lanciati dal mondo. Pensava che la guerra fosse ancora in corso ma si trattava di un’altra guerra, quella del Vietnam. Si potrebbe dire che Hiroo Onoda si sia costruito una vita completamente fittizia, con poche attinenze con la realtà».
Il tentativo di costruirsi una realtà fittizia pensa sia una caratteristica familiare agli esseri umani ?
«Totalmente. Noi, tutti noi, viviamo dentro norme culturali alle quali ci adattiamo. Mi viene in mente il cannibalismo, una pratica adottata da quasi tutte le culture tanti anni fa. Viviamo dentro realtà fittizia. È come se fossimo sempre dentro una performance, lei con me parla in un modo, con sua madre parlerebbe in un altro, quando entra dentro una Chiesa durante un matrimonio si comporta in un modo ancora diverso».
Il Museo del Cinema di Torino anni fa le ha dedicato una retrospettiva che ha ripercorso tutti i film della sua carriera fino ad allora. Che rapporto ha con il suo passato? Tende a giudicare le sue opere?
«Io mi considero a tutti gli effetti un lavoratore. E i lavoratori non hanno tanto tempo per guardarsi indietro. So che ogni tanto in giro per il mondo ci sono delle retrospettive che mi riguardano, mi fa piacere, ma io tendo a guardare sempre in avanti, so di avere fatto molti film, ma adesso ci sono ancora due libri nuovi e due film nuovi che nessuno ha ancora visto».
L’ultima domanda riguarda Franco Baresi. Che rapporto la lega a lui?
«In realtà non ci siamo mai incontrati, l’ho sempre ammirato per la sua integrità. Giocava a calcio anche quando non toccava il pallone, nessuno andando indietro nel tempo e nello spazio leggeva il gioco meglio di lui. Ecco berrei volentieri un bicchiere di vino con lui. Anche senza parlare».
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22 maggio 2022 (modifica il 22 maggio 2022 | 20:54)
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, 2022-05-22 18:58:00, Werner Herzog nella sua carriera ha visitato spesso il concetto di limite. La sua visita al castello di Rivoli ,