La storia di Carla: «Io, nata con l’Hiv, credevo che sarei rimasta sola. Poi ho costruito una famiglia»

Sono passati 39 anni da quando, per la prima volta, fu scoperto l’Hiv, il virus all’origine di una delle più spaventose malattie dell’epoca moderna, l’Aids. A oggi, molte cose sono cambiate: i farmaci permettono di convivere con il virus e di avere una aspettativa di vita pari a quella di chi non ha contratto l’infezione. Le donne possono portare a termine gravidanze serene e dare al mondo bambini sani. Questo, ovviamente, nei Paesi ricchi del mondo. Eppure avere l’Hiv oggi, in Italia, crea ancora molti problemi a livello sociale. Fa ancora paura. Quando incontriamo Carla (il nome è di fantasia, ndr) in occasione della Giornata mondiale contro l’Aids, il 1° dicembre, per farci raccontare la sua storia di bambina nata con infezione da Hiv da una coppia di genitori tossicodipendenti, che poi la daranno in adozione, ci chiede subito di rimanere anonima: Carla non ha problemi a raccontarci la sua storia. Ma sente il bisogno di proteggere la sua famiglia e il suo posto di lavoro.

L’infanzia difficile e l’adolescenza

«Nasco negli anni Ottanta in un contesto abbastanza disagiato: i miei genitori erano tossicodipendenti e si è scoperto alla mia nascita che erano sieropositivi — racconta a La27Ora la donna —. All’epoca era una malattia nuova e non si sapeva quello che sarebbe successo. Anche io nasco sieropositiva, e i primi anni non vengo seguita a livello ospedaliero. Finché non vengo tolta ai miei genitori e inserita in una struttura protetta. Rimango lì circa 2-3 anni, poi vengo adottata da una famiglia che è lungimirante, perché all’epoca c’era una grande paura, e nonostante questo hanno accolto una bambina che aveva uno stato di salute ai tempi ottimo, ma che comunque era sieropositiva».

Una forte discriminazione

«Negli anni Novanta c’era una forte discriminazione e una poca conoscenza della malattia. Fino alle medie faccio esami su esami, senza che i miei familiari mi dicano esattamente che cosa avessi. Ma all’età di 7-8 anni comprendo da sola la mia situazione e la tengo per me finché un giorno mi confido con mia mamma: ero arrabbiata perché non me lo aveva detto prima». Carla trascorre un’infanzia serena, apparentemente, perché fa tutto quello che fanno i suoi coetanei, «ma non ero serena emotivamente, né fiduciosa del futuro. Alle medie, inizio a pensare che sarei rimasta sola a vita. Avevo un’incognita forte sulla mia aspettativa di vita. Pensavo sempre: “Chissà se”».

Il rapporto con le altre persone

Ma gli anni della crescita sembrano segnati da momenti di maggiore fiducia. Carla prosegue il suo racconto: «Da adolescente ho iniziato a dirlo agli amici più stretti. Non ho mai ricevuto porte in faccia, anzi, ho incontrato grande intelligenza negli altri, e intorno ai 16-17 anni ho avuto il mio primo fidanzatino con cui sono stata sempre onesta. Mi è capitato una sola volta, in tutta la mia vita, di incontrare una persona che ha avuto delle difficoltà e quindi poi il rapporto non è andato avanti: ero all’università, e lui non riusciva a lasciarsi andare. Lo posso capire, soprattutto per l’età che avevamo, circa 19 anni ai tempi, e stiamo parlando di quasi 20 anni fa. Non potrei capirlo adesso, nel 2022».

La gravidanza

«Sono cresciuta pensando che non avrei mai avuto una famiglia e dei figli, ma non è stato così. Mio marito mi ha convinto e, parlando con i medici in ospedale, ci hanno spiegato che il rischio di contagio era pari a zero. Come si concepisce un bambino in questo caso? Mio marito è sieronegativo, ma io prendendo la terapia non lo posso infettare. Così abbiamo fatto tutto in modo naturale».

Bambini sani

La professoressa Vania Giacomet (Dibic, Dipartimento di Scienze biomediche e cliniche, Università di Milano), pediatra infettivologa all’Ospedale Sacco di Milano ci spiega infatti che oggi «le donne possono partorire dei bambini sani se seguono un percorso che permetta loro di mantenere una carica virale soppressa durante tutta la gravidanza. Inoltre, le linee guida internazionali nei Paesi ad alto sviluppo economico consigliano l’allattamento artificiale, mentre quello al seno è consigliato nei Paesi a basso reddito perché permette una difesa anche da altre infezioni. Invece da qualche anno le mamme Hiv positive possono partorire senza ricorrere al taglio cesareo e questo sempre grazie alla terapia antiretrovirale».

Le paure

Carla prosegue nei suoi ricordi: «Le paure arrivano quando rimango incinta perché devo continuare a prendere la terapia sia per me che per il bimbo. E quello che mi ha fatto soffrire di più è che ho dovuto dare a mio figlio una sorta di farmaco antiretrovirale alla nascita, per due settimane, e io mi sentivo in colpa da morire. Forse in modo sciocco, ma per me è stato emotivamente forte. Purtroppo questa esperienza, per me negativa, mi ha portato all’idea che non so se farò un altro bambino». Poi aggiunge: «Un’altra delle cose che mi spaventano è quando arriverà l’età per raccontare a mio figlio il mio vissuto, sia quello dell’infanzia, sia la mia sieropositività. Da una parte mi dà dispiacere che lui possa sentirsi triste per quello che ho vissuto. Però quando diventerà adolescente glielo racconterò, anche se vorrei che non conoscesse il brutto della vita».

Vivere l’erediterità del virus

«Sono nata con questa patologia che mi è stata trasmessa da mia madre; col passare degli anni ho provato una fortissima rabbia nei suoi confronti, per quello che mi aveva fatto passare e per quello che mi aveva trasmesso, mi chiedevo: “Perché mi ha rovinato la vita?”. E quando sentivo storie di tossicodipendenti non riuscivo a provare empatia nei loro confronti. Poi con gli anni si matura, si capisce che tutti possono sbagliare e che probabilmente loro hanno avuto delle difficoltà che li hanno spinti ad approcciarsi alla droga… Ma se penso alla me in una fase adolescenziale ho provato tanta rabbia quindi non riuscivo a concepire che l’errore di una persona potesse ricadere su di me. Ma quelli erano i pensieri di una ragazzina, che non sa ancora com’è la vita, che ci sono cose che possono portare delle conseguenze che non ti aspetti. E comunque non devi essere colpevolizzato per questo. Se prima mi arrabbiavo oggi ho una consapevolezza diversa».

I dati dell’Hiv in Italia

I nuovi dati (diffusi il 29 novembre) sulle diagnosi di infezione da Hiv e dei casi di Aids in Italia al 31 dicembre 2021, pubblicati sul Notiziario Istisan volume 35, n. 11 – novembre 2022, redatto dal Centro Operativo Aids (COA) dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), danno questa fotografia del nostro Paese: in Italia si contano tre nuovi casi di infezione da Hiv ogni 100 mila residenti con un’incidenza in diminuzione dal 2012. Questo dato porta l’Italia al di sotto della media dell’Unione europea. Inoltre, i rapporti sessuali sono la prima causa di trasmissione del virus, e molte di queste diagnosi sono tardive.

Aumentano i casi di sifilide

La Professoressa Giacomet aggiunge una riflessione: «L’Hiv in Italia non è in aumento, ma le malattie sessualmente trasmesse, tra i giovani, sì, in particolare la sifilide. Questo impatta molto sulla vita dei giovani che hanno perso o non hanno la percezione del rischio, per cui non hanno paura delle infezioni. E impatta anche sui neonati perché ne stiamo vedendo nati da madre con sifilide e anche casi di sifilide congenita, quindi ora dovremmo lavorare su questo, spiegando che ci sono dei rischi nei rapporti sessuali non protetti o occasionali e occorre imparare a difendersi da queste infezioni».

1 dicembre 2022 (modifica il 1 dicembre 2022 | 09:01)

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, 2022-12-01 08:10:00, La donna, nata negli anni Ottanta, è stata adottata. Da pochi anni ha avuto un bambino, nato sano. Il suo racconto per la Giornata mondiale contro l’Aids, Jessica Chia e Greta Dall’Acqua

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