«I rave? In Germania e Inghilterra li hanno istituzionalizzati e sono diventati una risorsa economica»

di Matteo Cruccu

Pierfrancesco Pacoda, professore al Dams, analizza il fenomeno allargando lo sguardo a quanto succede negli altri paesi: «La scommessa è portarli dall’illegalità alla cultura»

Il dibattito sul rave, in questi ultimi giorni, vira intorno al tema puro della legalità come se solo di una questione di ordine pubblico si trattasse. In realtà questi megaraduni clandestini, dove migliaia di ragazzi si divertono, ballano (e si sballano, certo, anche) hanno anche risvolti sociologici, culturali e perfino psicologici che sarebbe opportuno indagare. Oltre a trattarsi di un fenomeno del tutto europeo, di cui l’Italia non è che una delle patrie. Per questo motivo ne parliamo con Pierfrancesco Pacoda, professore al Dams di Bologna e autore, qualche tempo fa, di un interessante saggio per Feltrinelli « Sulle rotte del rave. Dj’s party e piste da ballo da Goa a Londra, da Bali a Ibiza» oltre ad aver curato col compianto Claudio Coccoluto («Io dj»). «Quello di Modena non è che un episodio- esordisce- Perché di rave in Italia, se ne sono fatti, se fanno, se ne continueranno a fare, con cadenza regolare».

Perché secondo lei?

«Perché in queste situazioni ti senti libero, nessuno ti giudica, non ci sono buttafuori, ti puoi vestire come vuoi. E certo puoi consumare sostanze illegali. Ma questo, purtroppo accade ovunque, nelle discoteche convenzionali e nei luoghi di lavoro. Oggi nessuno parlerebbe di Woodstock, come di un consesso di drogati, eppure gli stupefacenti circolarono a fiumi là. La verità è che bisognerebbe avere un approccio laico su queste questioni, prevenire, punire certo, ma anche intervenire con presidi sanitari. E comunque questa legge non è un inedito in Europa»

Qual è il precedente?

«Nel 1994 in Inghilterra pubblicarono il Criminal Justice Act: puniva le persone riunite ad ascoltare illegalmente musica techno. I raver britannici decisero di scendere in piazza, in 50.000 a Londra, per chiedere la revoca della legge. Da quel momento la cultura dei rave divenne un tema pubblico e finì per pervadere i club e la discografia, in qualche modo istituzionalizzandola».

Si parla spesso anche della Germania

« Là, di rave illegali, ce ne sono assai di meno, perché le amministrazioni danno spazi a chi organizza questo genere di eventi, in quanto sono considerati cultura e non solo una questione di ordine pubblico. E infatti hanno generato un enorme indotto».

Si potrebbe seguire questa logica anche da noi?

«Beh, i raver di solito “occupano” luoghi che sono abbandonati, fabbriche dove non si lavora più, spazi pubblici in disuso. Si potrebbe pensare che restituirli alla collettività, legalmente, non sia un’operazione sbagliata. Poi certo se gli edifici sono pericolanti, come a Modena, non va bene. Ma forse andrebbero abbattuti prima che qualcuno decida di occuparli. E ricordarsi appunto che rave è anche cultura. Uno su tutti, mi viene in mente l’episodio di Sarajevo».

Ovvero?

«Nel 1994 i Desert Storm, un collettivo britannico di techno, organizzarono un rave nel centro di Sarajevo, mentre ancora i cecchini sparavano dai tetti dei palazzi. Fu il primo tentativo di riportare la normalità in zone dove non era più di casa. Perché la gente balla dappertutto, in spiaggia, a casa, in guerra. Trasformare l’illegalità in una risorsa sarebbe una grande vittoria».

3 novembre 2022 (modifica il 3 novembre 2022 | 14:19)

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, 2022-11-03 15:19:00, Pierfrancesco Pacoda, professore al Dams, analizza il fenomeno allargando lo sguardo a quanto succede negli altri paesi: «La scommessa è portarli dall’illegalità alla cultura», Matteo Cruccu

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