di Lorenzo Cremonesi
La strada percorsa alcuni giorni fa dalla lunga colonna di carri armati degli invasori ora è libera. Il governo di Zelensky: «Anche l’Italia tra i Paesi garanti della nostra sicurezza»
DAL NOSTRO INVIATO
Vyshhorod (Kiev) — Vivere in diretta nella regione della capitale questa nuova fase della guerra significa soprattutto assistere alla riapertura dei negozi, vedere giovani seduti ai bar, più traffico nelle strade, ma anche militari e volontari della guardia civile approfittare del momento di calma per raddoppiare i sistemi di difesa e intensificare i controlli ai posti di blocco. Sono ormai alcuni giorni che le forze militari ucraine sono passate al contrattacco nelle zone tutto attorno alle periferie settentrionali, ma anche orientali e occidentali. Ed è ormai evidente che i russi sono in ritirata, in alcuni settori solo un pugno di chilometri, ma in altri sino a una trentina, rendendo inutile larga parte delle artiglierie e delle batterie di missili Grad che secondo i loro piani originari avrebbero dovuto bombardare duro Kiev per fiaccarne la resistenza.
I tre ponti distrutti
Ieri mattina abbiamo viaggiato circa 25 chilometri per raggiungere Vyshhorod: una delle cittadine che si trova sulla strada imboccata ormai un mese fa dal gigantesco convoglio (un vero corpo d’armata) che dalla Bielorussia, passando per Chernobyl, avrebbe dovuto rapidamente regalare la vittoria a Putin. La strada era tranquilla, con poco traffico e rari mezzi militari visibili. Proprio mentre entravamo nella cerchia urbana lungo il Dnepr, e un soldato mostrava i tre ponti distrutti tre settimane fa per impedire ai blindati russi di avanzare sino alla centrale elettrica poco distante, è giunta la notizia da Mosca per cui le forze russe «entrano in una nuova fase della guerra» più concentrata sulle regioni orientali del Donbass che non su Kiev.
Un’ammissione di impotenza
I comandi russi presentano la mossa come fosse in armonia con il piano originario. Ma, visto da qui, l’annuncio appare come un’ammissione di impotenza e la prova più evidente del fallimento del progetto iniziale russo di catturare Kiev. «Sin dai primi giorni di guerra per noi è stato evidente che i russi non avevano alcuna possibilità di entrare nella cerchia urbana della capitale. I loro carri armati erano male equipaggiati, con le radio difettose, poco carburante, pochi pezzi di ricambio, le razioni di cibo scadute, i soldati vestiti troppo leggeri per le notti fredde all’aperto», ci dice un addetto alla difesa che non vuole essere fotografato o identificato.Non è l’unico. Persino le guardie all’ospedale locale si dimostrano ostili. «Sono vietate foto e interviste», dicono. Le loro cautele sono alimentate dalla necessità di contrastare i «sabotatori» russi, agenti e piccole cellule militanti che mirano a creare il caos nelle retrovie. «Quasi ogni notte registriamo incidenti. Ci sono stati uccisioni e rapimenti di leader della nostra comunità. E adesso dobbiamo stare attenti ai russi disertori, che rubano abiti civili nelle case abbandonate», spiega Sergeji, uno dei responsabili della municipalità.
La zona industriale
Tornando verso la capitale facciamo sosta nella zona industriale, dove si trova lo stabilimento della Tornado, una grande azienda che confeziona divise e giubbotti antiproiettile per l’esercito. Anche qui le consegne al silenzio sono rigide, si temono i razzi russi. Il direttore, il cinquantenne Alexander Vasilcinkov, è disposto a raccontare: «Avevamo 8 stabilimenti e 780 dipendenti, la guerra ci ha ridotto a 6 stabilimenti con 228 operai. Ma la produzione è quadruplicata dal 24 febbraio: da 30.000 unità confezionate ogni mese a 120.000. E questo vale per tutte le fabbriche, pur tra mille difficoltà per le materie prime e i trasporti, lo Stato paga e noi intensifichiamo i turni».
La resistenza
L’ottimismo s’irradia da Kiev verso le altre province. Sino a due giorni fa sembrava che solo le regioni confinanti col Donbass e la zona di Kherson fossero sotto pieno controllo russo. Ma ieri in serata i comandi ucraini e il Pentagono ribadivano che proprio a Kherson la resistenza aveva ripreso a combattere: se i russi dovessero abbandonarla, Putin sarebbe in difficoltà. In altre città come Chernihiv, Mariupol e Kharkiv, la battaglia però infuria violenta e gli ucraini restano accerchiati.
P.S. Andriy Yermak, collaboratore di Zelensky, dice ai media georgiani che tra i Paesi garanti della sicurezza dell’Ucraina, «oltre ai membri permanenti del Consiglio di sicurezza Onu, vorremmo Turchia, Germania, Canada, Israele». E che ci sono «informazioni di un interesse dell’Italia a unirsi a questo processo».
25 marzo 2022 (modifica il 26 marzo 2022 | 00:30)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
, 2022-03-26 05:30:00,
di Lorenzo Cremonesi
La strada percorsa alcuni giorni fa dalla lunga colonna di carri armati degli invasori ora è libera. Il governo di Zelensky: «Anche l’Italia tra i Paesi garanti della nostra sicurezza»
DAL NOSTRO INVIATO
Vyshhorod (Kiev) — Vivere in diretta nella regione della capitale questa nuova fase della guerra significa soprattutto assistere alla riapertura dei negozi, vedere giovani seduti ai bar, più traffico nelle strade, ma anche militari e volontari della guardia civile approfittare del momento di calma per raddoppiare i sistemi di difesa e intensificare i controlli ai posti di blocco. Sono ormai alcuni giorni che le forze militari ucraine sono passate al contrattacco nelle zone tutto attorno alle periferie settentrionali, ma anche orientali e occidentali. Ed è ormai evidente che i russi sono in ritirata, in alcuni settori solo un pugno di chilometri, ma in altri sino a una trentina, rendendo inutile larga parte delle artiglierie e delle batterie di missili Grad che secondo i loro piani originari avrebbero dovuto bombardare duro Kiev per fiaccarne la resistenza.
I tre ponti distrutti
Ieri mattina abbiamo viaggiato circa 25 chilometri per raggiungere Vyshhorod: una delle cittadine che si trova sulla strada imboccata ormai un mese fa dal gigantesco convoglio (un vero corpo d’armata) che dalla Bielorussia, passando per Chernobyl, avrebbe dovuto rapidamente regalare la vittoria a Putin. La strada era tranquilla, con poco traffico e rari mezzi militari visibili. Proprio mentre entravamo nella cerchia urbana lungo il Dnepr, e un soldato mostrava i tre ponti distrutti tre settimane fa per impedire ai blindati russi di avanzare sino alla centrale elettrica poco distante, è giunta la notizia da Mosca per cui le forze russe «entrano in una nuova fase della guerra» più concentrata sulle regioni orientali del Donbass che non su Kiev.
Un’ammissione di impotenza
I comandi russi presentano la mossa come fosse in armonia con il piano originario. Ma, visto da qui, l’annuncio appare come un’ammissione di impotenza e la prova più evidente del fallimento del progetto iniziale russo di catturare Kiev. «Sin dai primi giorni di guerra per noi è stato evidente che i russi non avevano alcuna possibilità di entrare nella cerchia urbana della capitale. I loro carri armati erano male equipaggiati, con le radio difettose, poco carburante, pochi pezzi di ricambio, le razioni di cibo scadute, i soldati vestiti troppo leggeri per le notti fredde all’aperto», ci dice un addetto alla difesa che non vuole essere fotografato o identificato.Non è l’unico. Persino le guardie all’ospedale locale si dimostrano ostili. «Sono vietate foto e interviste», dicono. Le loro cautele sono alimentate dalla necessità di contrastare i «sabotatori» russi, agenti e piccole cellule militanti che mirano a creare il caos nelle retrovie. «Quasi ogni notte registriamo incidenti. Ci sono stati uccisioni e rapimenti di leader della nostra comunità. E adesso dobbiamo stare attenti ai russi disertori, che rubano abiti civili nelle case abbandonate», spiega Sergeji, uno dei responsabili della municipalità.
La zona industriale
Tornando verso la capitale facciamo sosta nella zona industriale, dove si trova lo stabilimento della Tornado, una grande azienda che confeziona divise e giubbotti antiproiettile per l’esercito. Anche qui le consegne al silenzio sono rigide, si temono i razzi russi. Il direttore, il cinquantenne Alexander Vasilcinkov, è disposto a raccontare: «Avevamo 8 stabilimenti e 780 dipendenti, la guerra ci ha ridotto a 6 stabilimenti con 228 operai. Ma la produzione è quadruplicata dal 24 febbraio: da 30.000 unità confezionate ogni mese a 120.000. E questo vale per tutte le fabbriche, pur tra mille difficoltà per le materie prime e i trasporti, lo Stato paga e noi intensifichiamo i turni».
La resistenza
L’ottimismo s’irradia da Kiev verso le altre province. Sino a due giorni fa sembrava che solo le regioni confinanti col Donbass e la zona di Kherson fossero sotto pieno controllo russo. Ma ieri in serata i comandi ucraini e il Pentagono ribadivano che proprio a Kherson la resistenza aveva ripreso a combattere: se i russi dovessero abbandonarla, Putin sarebbe in difficoltà. In altre città come Chernihiv, Mariupol e Kharkiv, la battaglia però infuria violenta e gli ucraini restano accerchiati.
P.S. Andriy Yermak, collaboratore di Zelensky, dice ai media georgiani che tra i Paesi garanti della sicurezza dell’Ucraina, «oltre ai membri permanenti del Consiglio di sicurezza Onu, vorremmo Turchia, Germania, Canada, Israele». E che ci sono «informazioni di un interesse dell’Italia a unirsi a questo processo».
25 marzo 2022 (modifica il 26 marzo 2022 | 00:30)
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