I tormenti dei democrat

Mezzogiorno, 30 ottobre 2022 – 08:47 di Mario Rusciano Al Partito Democratico gioverà un quinquennio di seria opposizione. Per leccarsi ferite non facilmente rimarginabili e, a costo di rimetterci le penne, riscoprire un’identità. Che tra iscritti e simpatizzanti alcuni danno per sfocata, altri per persa. Non gli si perdonano errori tattici e strategici. Intanto, almeno per ora, è il secondo partito italiano: che, pur in perenne travaglio, ha storia e struttura radicate nella società. Soprattutto nell’establishment? Può darsi, ma solo perché le sue componenti originarie — ex-comunisti e democristiani progressisti — si sono aggregate (chissà a quale temperatura fuse), avendo ciascuna una lunga storia ideale e organizzativa. Che comunque, per l’Italia, è sì una storia di potere, ma pure di libertà, benessere e cultura. L’accusa più sbrigativa al Pd: stare al governo nell’ultimo decennio senza vincere elezioni. Accusa infondata, di grande effetto propagandistico. Nella democrazia parlamentare i governi si formano in Parlamento. Ed è difficile stabilire se l’immeritata permanenza al governo sia dovuta all’attaccamento al potere del Pd o anche all’irrequietezza degli altri partiti movimenti e leader . E alle oggettive congiunture storiche, frutto del patologico andamento della politica italiana. Vi s’intrecciano crisi economiche, globalizzazione, rivoluzione tecnologica, deindustrializzazione, disoccupazione (specie al Sud), populismi, disorientamenti sociali e adesso la guerra. In realtà quei governi, costituiti o partecipati dal Pd, sono sempre stati votati in Parlamento. Sicché la «follia antidemocratica» d’un partito abbarbicato al potere senza piena legittimazione andrebbe equamente ripartita tra quanti li hanno sostenuti. Sarebbe utile tracciare ora una sintesi storica, qui impossibile. Conviene però almeno ricordare che, dalla caduta nel 2011 del Governo Berlusconi e col Paese in grave crisi economica, si comincia col Governo tecnico di Monti e si finisce col Governo tecnico di Draghi, passando per i Governi Letta, Renzi e Gentiloni: col Pd sempre a farsi carico della responsabilità di governi precari, mentre imperversano i populismi del M5S di Grillo, della Lega di Salvini e di Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. Senza contare i trasformismi e l’ingrossamento del Gruppo misto in Parlamento. C’è solo la parentesi, alquanto breve, del Governo M5S-Lega presieduto da Giuseppe Conte, in cui il Pd va finalmente all’opposizione. Ritorna però al Governo, stavolta col M5S e sempre con Conte Presidente, auspice Matteo Renzi — già in procinto d’abbandonare il Pd e fondare «Italia viva» — che vorrebbe far fuori il Pd. Renzi fa i conti senza un oste imbattibile: la terribile pandemia del Covid19 che costringe alla tregua l’inquieta politica italiana. Perciò il cosiddetto «Conte2» va avanti finché Renzi — enigmatico costruttore e distruttore (a suo vantaggio) di governi — non decide di sfiduciarlo. Essendo difficile fare le elezioni in piena pandemia arriva, per decisione di Mattarella, il Governo d’unità nazionale (per modo di dire) presieduto da Mario Draghi e sostenuto da una stravagante maggioranza da sinistra a destra. Il seguito è cronaca degli ultimi mesi, resi drammatici dalla guerra d’aggressione della Russia all’Ucraina dello scorso febbraio e dalle devastanti conseguenze economico-finanziarie in Europa, fronteggiate per quanto possibile dal Governo Draghi. Tuttavia non basta il prestigio internazionale di Mario Draghi a sedare le tensioni nella strana maggioranza governativa. Draghi viene in pratica sfiduciato: prima dal M5S, poi da Lega e Forza Italia — preoccupati della perdita di consensi annunciata dai sondaggi — sicché non resta che anticipare il voto. Vince Giorgia Meloni che capeggia una destra unita e diventa Presidente del Consiglio, fiancheggiata da Berlusconi e Salvini, che vincono benché sconfitti nelle urne. Il M5S recupera suffragi rispetto ai sondaggi, mentre più punito dal voto è il Pd, che va all’opposizione insieme col M5S e con Azione di Calenda-Renzi. Un’opposizione molto divisa col Pd ora attanagliato da Conte, che vuole sorpassarlo a sinistra, e da Calenda e Renzi che, delusi dal risultato elettorale, vogliono eroderlo da destra. C’è chi dice, soprattutto la dirigenza, che il Pd paga il prezzo d’aver sempre difeso l’interesse nazionale nel tempestoso mare italiano. Ma i più attribuiscono la sua sconfitta alla classe dirigente divisa al suo interno in molte correnti e perciò incapace d’una strategia credibile. Ora Letta giustamente si presenta dimissionario al prossimo Congresso — da tenersi addirittura a marzo del ’23 — che dovrebbe rifondare il Partito. Domande: i dirigenti delle correnti sanno come si rifonda un Partito che ha una storia senza avere una chiara strategia politica? Hanno delle idee su che fare in tanti mesi dal Congresso? Vogliono finalmente dire agli italiani se possono ancora stare insieme ideali originariamente contrapposti, poi frettolosamente amalgamati, forse senza adeguata convinzione? Sanno come si fa a ricostruire un partito nazionale e interclassista andando tra la gente, da Nord a Sud, per capire la realtà di un Paese in grande sofferenza? E poi: sanno su quali pilastri ideali fondare un’opposizione ferma? È da sperare che, tra questi pilastri, non manchino: la strenua difesa della Costituzione antifascista; l’opposizione al presidenzialismo, anticamera dell’autoritarismo; la lotta all’autonomia differenziata che mortifica il Mezzogiorno. Bastano poche idee, purché non siano confuse. 30 ottobre 2022 | 08:47 © RIPRODUZIONE RISERVATA , 2022-10-30 07:48:00, Mezzogiorno, 30 ottobre 2022 – 08:47 di Mario Rusciano Al Partito Democratico gioverà un quinquennio di seria opposizione. Per leccarsi ferite non facilmente rimarginabili e, a costo di rimetterci le penne, riscoprire un’identità. Che tra iscritti e simpatizzanti alcuni danno per sfocata, altri per persa. Non gli si perdonano errori tattici e strategici. Intanto, almeno per ora, è il secondo partito italiano: che, pur in perenne travaglio, ha storia e struttura radicate nella società. Soprattutto nell’establishment? Può darsi, ma solo perché le sue componenti originarie — ex-comunisti e democristiani progressisti — si sono aggregate (chissà a quale temperatura fuse), avendo ciascuna una lunga storia ideale e organizzativa. Che comunque, per l’Italia, è sì una storia di potere, ma pure di libertà, benessere e cultura. L’accusa più sbrigativa al Pd: stare al governo nell’ultimo decennio senza vincere elezioni. Accusa infondata, di grande effetto propagandistico. Nella democrazia parlamentare i governi si formano in Parlamento. Ed è difficile stabilire se l’immeritata permanenza al governo sia dovuta all’attaccamento al potere del Pd o anche all’irrequietezza degli altri partiti movimenti e leader . E alle oggettive congiunture storiche, frutto del patologico andamento della politica italiana. Vi s’intrecciano crisi economiche, globalizzazione, rivoluzione tecnologica, deindustrializzazione, disoccupazione (specie al Sud), populismi, disorientamenti sociali e adesso la guerra. In realtà quei governi, costituiti o partecipati dal Pd, sono sempre stati votati in Parlamento. Sicché la «follia antidemocratica» d’un partito abbarbicato al potere senza piena legittimazione andrebbe equamente ripartita tra quanti li hanno sostenuti. Sarebbe utile tracciare ora una sintesi storica, qui impossibile. Conviene però almeno ricordare che, dalla caduta nel 2011 del Governo Berlusconi e col Paese in grave crisi economica, si comincia col Governo tecnico di Monti e si finisce col Governo tecnico di Draghi, passando per i Governi Letta, Renzi e Gentiloni: col Pd sempre a farsi carico della responsabilità di governi precari, mentre imperversano i populismi del M5S di Grillo, della Lega di Salvini e di Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. Senza contare i trasformismi e l’ingrossamento del Gruppo misto in Parlamento. C’è solo la parentesi, alquanto breve, del Governo M5S-Lega presieduto da Giuseppe Conte, in cui il Pd va finalmente all’opposizione. Ritorna però al Governo, stavolta col M5S e sempre con Conte Presidente, auspice Matteo Renzi — già in procinto d’abbandonare il Pd e fondare «Italia viva» — che vorrebbe far fuori il Pd. Renzi fa i conti senza un oste imbattibile: la terribile pandemia del Covid19 che costringe alla tregua l’inquieta politica italiana. Perciò il cosiddetto «Conte2» va avanti finché Renzi — enigmatico costruttore e distruttore (a suo vantaggio) di governi — non decide di sfiduciarlo. Essendo difficile fare le elezioni in piena pandemia arriva, per decisione di Mattarella, il Governo d’unità nazionale (per modo di dire) presieduto da Mario Draghi e sostenuto da una stravagante maggioranza da sinistra a destra. Il seguito è cronaca degli ultimi mesi, resi drammatici dalla guerra d’aggressione della Russia all’Ucraina dello scorso febbraio e dalle devastanti conseguenze economico-finanziarie in Europa, fronteggiate per quanto possibile dal Governo Draghi. Tuttavia non basta il prestigio internazionale di Mario Draghi a sedare le tensioni nella strana maggioranza governativa. Draghi viene in pratica sfiduciato: prima dal M5S, poi da Lega e Forza Italia — preoccupati della perdita di consensi annunciata dai sondaggi — sicché non resta che anticipare il voto. Vince Giorgia Meloni che capeggia una destra unita e diventa Presidente del Consiglio, fiancheggiata da Berlusconi e Salvini, che vincono benché sconfitti nelle urne. Il M5S recupera suffragi rispetto ai sondaggi, mentre più punito dal voto è il Pd, che va all’opposizione insieme col M5S e con Azione di Calenda-Renzi. Un’opposizione molto divisa col Pd ora attanagliato da Conte, che vuole sorpassarlo a sinistra, e da Calenda e Renzi che, delusi dal risultato elettorale, vogliono eroderlo da destra. C’è chi dice, soprattutto la dirigenza, che il Pd paga il prezzo d’aver sempre difeso l’interesse nazionale nel tempestoso mare italiano. Ma i più attribuiscono la sua sconfitta alla classe dirigente divisa al suo interno in molte correnti e perciò incapace d’una strategia credibile. Ora Letta giustamente si presenta dimissionario al prossimo Congresso — da tenersi addirittura a marzo del ’23 — che dovrebbe rifondare il Partito. Domande: i dirigenti delle correnti sanno come si rifonda un Partito che ha una storia senza avere una chiara strategia politica? Hanno delle idee su che fare in tanti mesi dal Congresso? Vogliono finalmente dire agli italiani se possono ancora stare insieme ideali originariamente contrapposti, poi frettolosamente amalgamati, forse senza adeguata convinzione? Sanno come si fa a ricostruire un partito nazionale e interclassista andando tra la gente, da Nord a Sud, per capire la realtà di un Paese in grande sofferenza? E poi: sanno su quali pilastri ideali fondare un’opposizione ferma? È da sperare che, tra questi pilastri, non manchino: la strenua difesa della Costituzione antifascista; l’opposizione al presidenzialismo, anticamera dell’autoritarismo; la lotta all’autonomia differenziata che mortifica il Mezzogiorno. Bastano poche idee, purché non siano confuse. 30 ottobre 2022 | 08:47 © RIPRODUZIONE RISERVATA ,

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