Ieri tuonava contro la casta ora non lascia la «poltrona». La trincea di Petrocelli-Petrov

di Tommaso LabateIl senatore M5S: «Non intendo mollare la presidenza della commissione Esteri» «Io, da lì, non me ne vado. Non intendo lasciare la presidenza della commissione Esteri», continua a ripetere ai pochissimi a cui risponde al telefono, impegnato com’è nel resto del tempo a innaffiare le sue radici su quella stessa «poltrona» un tempo brandita come parolaccia a uso e consumo degli avversari politici. Già, perché quando si trattava di quella degli altri, la parola «poltrona» abbondava sempre nella bocca di Vito Petrocelli, il senatore del Movimento, filorusso e ultras del putinismo in salsa nostrana, che in barba alle più basilari regole democratiche resiste alla guida della commissione Esteri del Senato in cui rappresenta ormai solo se stesso. «Avvinghiato alla poltrona manco fosse una preda», diceva nel 2015 di Maurizio Lupi, che tra l’altro poi si dimise da ministro dei Trasporti per una storia in cui non era neanche indagato. «Sotto la poltrona la casta campa. Sotto l’urna la casta crepa», scriveva invece nel 2017 in un tweet con le foto di Luca Lotti e Augusto Minzolini. Che sia dimentico dell’inossidabile lezione di vita reale esportata meritoriamente in politica dal vecchio leader socialista Pietro Nenni — «A fare a gara a fare il puro, troverai sempre uno più puro che ti epura» — è quasi una questione secondaria. Con l’occupazione della presidenza della commissione Esteri del Senato, Petrocelli fa fare un salto di qualità al suo personalissimo putinismo: la sua ammirazione teorica per certe deroghe alla democrazia, che in passato l’ha spinto fino a negare il genocidio degli uiguri in Cina, si trasforma come per magia in esercizio pratico. Sconfessato dal suo stesso partito («Vogliono espellermi? Vedano loro quali conseguenze», replica lui), isolato dal resto della commissione che presiede, con un piede fuori dalla maggioranza («Non voterò più la fiducia») e una posizione («Non inviare armi all’Ucraina») che difende praticamente da solo, il senatore che ha percorso la strada dal maoismo al putinismo (lo chiamano «Petrov») rimane «presidente» forse in virtù di quella regoletta, tutt’altro che democratica, che faceva dire al marchese del Grillo di Alberto Sordi che «io so’ io e voi non siete un c…o». Altrimenti non si spiega. L’occupazione della commissione Esteri «manu petrocelli» ricorda il precedente di Riccardo Villari, il senatore del centrosinistra che all’inizio della legislatura del 2008 si fece eleggere alla presidenza della Vigilanza sulla Rai coi voti del centrodestra e rimase asserragliato per tre mesi, e coi voti dell’allora maggioranza, in una postazione che toccava all’opposizione. Espulso dal suo partito, il Pd, Villari resistette a una moral suasion messa in pratica a tutti i livelli istituzionali; per toglierlo da lì, dopo averle pensate tutte, dovettero dimettersi in blocco tutti i commissari (tranne tre) e rifare la commissione daccapo, stavolta senza di lui. Che tentò addirittura un ricorso alla Corte Costituzionale, senza risultati. Il caso di Petrocelli va addirittura oltre. Una maggioranza, anche se quella «sbagliata», Villari fino a un certo punto ce l’aveva; lui, invece, neanche quella. Forte dei regolamenti parlamentari che non prevedono la sfiducia al presidente di una commissione né una procedura per la sostituzione dei commissari, il senatore filorusso può continuare a fischiettare, ignorando il pressing di Giuseppe Conte che verosimilmente lo accompagnerà alla porta. La missione negli Stati Uniti della commissione Esteri, in programma dal prossimo 28 marzo al 4 aprile, è stata annullata. Petrocelli, quindi, non potrà fregiarsi del titolo di primo «putiniano» ad aver messo piede a Washington alla guida di una delegazione dall’inizio della guerra e sarà quindi in Senato per il voto sulla conversione del decreto Ucraina. A dire il proprio «no», che gli costerà l’espulsione dal Movimento. E, chissà, a continuare a respingere le richieste di dimissioni che gli arrivano ormai da tutte le parti. Perché per lui, in fondo, le dimissioni sono come il verde dell’erba del vicino: se sono degli altri, sono sempre più belle. 23 marzo 2022 (modifica il 23 marzo 2022 | 23:15) © RIPRODUZIONE RISERVATA , 2022-03-23 22:15:00, Il senatore M5S: «Non intendo mollare la presidenza della commissione Esteri», Tommaso Labate

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