Il «fattore P» irrompe in politica

editoriale Mezzogiorno, 28 maggio 2022 – 07:44 di Paolo Macry Emerge nel dibattito italiano il problema del «Fattore P», del «Fattore Putin», il problema cioè della sorte che potrebbero avere, all’indomani delle elezioni del 2023, le forze politiche anti-atlantiche e (più o meno scopertamente) filo-putiniane. Nel paese, notoriamente, sta montando un neutralismo che, per paura della guerra o per calcoli di tasca o per richiami ideologici, non riesce a stare dalla parte di Zelensky. O meglio non riesce a schierarsi contro Putin e con l’Occidente. Un fenomeno in cui confluiscono i comunisti dell’estrema, i postcomunisti del Pd, i leghisti di Salvini, i grillini di Conte, i cattolici di Francesco, la destra di ascendenza antiamericana. Sono molti, forse la maggioranza del paese. Ma è di tutta evidenza che un simile schieramento trasversale non potrebbe mai trovare un comune approdo politico, nè mai essere l’ossatura di un esecutivo. L’Italia è legata a organizzazioni e trattati internazionali che non possono essere rinnegati su due piedi. Sicchè la domanda diventa un’altra. E se le forze politiche anti-atlantiche finissero fuori dall’area legittimata a governare il paese? Se emergesse un «Fattore P»? Sembrano discorsi lunari. E tuttavia, da sempre e non solo in Italia, chi si colloca su posizioni antitetiche a quelle definite dai trattati internazionali sottoscritti dal paese diventa oggetto di una conventio ad excludendum. Capitò al Pci e al Msi nel secondo 900. Potrebbe capitare a pezzi consistenti di centrosinistra e centrodestra all’indomani delle elezioni. C’è chi, come Angelo Panebianco, non scarta l’idea di un incontro tra Letta e Meloni, cioè tra forze diversissime, ma accomunate dall’atlantismo. È in questo contesto di problemi e dubbi a dir poco sorprendenti che spunta la cronaca locale. E il suo mattatore, Vincenzo De Luca. «Stoltenberg? Ha un nome che sembra un presagio», ha detto De Luca debordando sui temi della geopolitica, in occasione della kermesse per i 130 anni del «Mattino». Una battuta che perfino in un cabaret sarebbe apparsa di pessimo gusto, visto che parliamo di guerra, massacri, fosse comuni. Ma che tanto più ha attirato l’attenzione perché il «governatore» l’ha pronunciata nel corso di un minuetto improvvisato niente di meno che con Matteo Salvini, ovvero con il leader della (già famigerata) Lega. Tutti e due convintamente ostili alla linea seguita dall’Italia nella crisi ucraina. Salvini e De Luca, com’è noto, appartengono al novero della politica populista. Sono cioè attenti a captare le onde del sentire comune, quali che siano, cercando di farsene interpreti, di valorizzarle, spesso di aizzarle. Salvini ebbe grande fortuna sollecitando la paura dei migranti e adottando uno slogan di trumpiana ascendenza: prima gli italiani. De Luca ha cavalcato la paura del Covid, presentandosi come l’Uomo Forte che l’avrebbe sconfitto. In questi anni, Salvini e De Luca (certo, non i soli) hanno imperversato su televisioni e social media. Il bonapartismo del terzo Millennio passa attraverso Facebook e Instagram. E oggi, come fosse il segno di un destino, finiscono per approdare sulle medesime sponde geopolitiche. Ma con quali obiettivi? In fondo, qualunque orrore venga alla luce a Bucha o a Mariupol, è risaputo che agli elettori del 2023 interesseranno piuttosto l’inflazione, la bolletta energetica, i «ristori» governativi. Ed è altrettanto evidente che servirebbe ben altro che gli umori russofili di Salvini o le tirate antioccidentali di De Luca per cambiare la politica estera del paese. Che rimarrà atlantista anche dopo le elezioni. L’onda neutralista non sembra cioè in grado di fruttare grandi doti elettorali a chi cerca di cavalcarla, non foss’altro perchè il campo putiniano è, come detto, assai affollato. E non avrà altro effetto – sul piano internazionale – se non quello di indebolire la credibilità del paese di fronte ai suoi alleati. Già oggi, se si legge la stampa europea, l’Italia sembra essere ridiventata il ventre molle dell’Occidente. E qui si torna al minuetto di Salvini e De Luca. I quali affondano i loro colpi di campioni della realpolitik, quasi fossero novelli Bismarck o Kissinger, ma appaiono assai poco interessati alle dinamiche del conflitto russo-ucraino e al confronto globale tra democrazie e autocrazie. Interessati a questioni infinitamente meno strategiche. Salvini, al netto di qualche amico slavo di troppo, sta cercando di ribadire la propria leadership all’interno di una Lega sempre più irrequieta di fronte al calo dei sondaggi e perciò scettica nei suoi confronti. Mentre De Luca, al netto di eventuali nostalgie sovietiche, cavalca la polemica anti-Nato per mandare a segno qualche colpo basso a Draghi e soprattutto a Enrico Letta, cioè al suo segretario. Intende ribadire di essere una sorta di territorio franco che si erge al di sopra dell’«unità nazionale» e della linea del partito. Monarca di uno stato nello stato, si ritiene in diritto di dettare anche la sua politica internazionale. Tutti e due, insomma, fanno calcoli di scala ridotta e di natura autoreferenziale. La loro «eresia» geopolitica, in modo fin troppo scoperto, non ha altro scopo se non difendere il proprio peso specifico nei rispettivi partiti, creando scompiglio al loro interno e perciò nelle fragili alleanze di centrosinistra e di centrodestra e negli equilibri di governo. Ed è questo, in ultima analisi, che sconcerta, assai più di una battuta greve. È questo che l’opinione pubblica occidentale sembra non perdonare al nostro paese. La mescolanza tra i drammatici nodi globali del momento e i piccoli interessi di bottega di qualche leader. Ovvero la mortificazione della politica con la p maiuscola. La newsletter del Corriere del MezzogiornoSe vuoi restare aggiornato sulle notizie della Campania iscriviti gratis alla newsletter del Corriere del Mezzogiorno. Arriva tutti i giorni direttamente nella tua casella di posta alle 12. Basta cliccare qui. 28 maggio 2022 | 07:44 © RIPRODUZIONE RISERVATA , 2022-05-28 05:45:00, editoriale Mezzogiorno, 28 maggio 2022 – 07:44 di Paolo Macry Emerge nel dibattito italiano il problema del «Fattore P», del «Fattore Putin», il problema cioè della sorte che potrebbero avere, all’indomani delle elezioni del 2023, le forze politiche anti-atlantiche e (più o meno scopertamente) filo-putiniane. Nel paese, notoriamente, sta montando un neutralismo che, per paura della guerra o per calcoli di tasca o per richiami ideologici, non riesce a stare dalla parte di Zelensky. O meglio non riesce a schierarsi contro Putin e con l’Occidente. Un fenomeno in cui confluiscono i comunisti dell’estrema, i postcomunisti del Pd, i leghisti di Salvini, i grillini di Conte, i cattolici di Francesco, la destra di ascendenza antiamericana. Sono molti, forse la maggioranza del paese. Ma è di tutta evidenza che un simile schieramento trasversale non potrebbe mai trovare un comune approdo politico, nè mai essere l’ossatura di un esecutivo. L’Italia è legata a organizzazioni e trattati internazionali che non possono essere rinnegati su due piedi. Sicchè la domanda diventa un’altra. E se le forze politiche anti-atlantiche finissero fuori dall’area legittimata a governare il paese? Se emergesse un «Fattore P»? Sembrano discorsi lunari. E tuttavia, da sempre e non solo in Italia, chi si colloca su posizioni antitetiche a quelle definite dai trattati internazionali sottoscritti dal paese diventa oggetto di una conventio ad excludendum. Capitò al Pci e al Msi nel secondo 900. Potrebbe capitare a pezzi consistenti di centrosinistra e centrodestra all’indomani delle elezioni. C’è chi, come Angelo Panebianco, non scarta l’idea di un incontro tra Letta e Meloni, cioè tra forze diversissime, ma accomunate dall’atlantismo. È in questo contesto di problemi e dubbi a dir poco sorprendenti che spunta la cronaca locale. E il suo mattatore, Vincenzo De Luca. «Stoltenberg? Ha un nome che sembra un presagio», ha detto De Luca debordando sui temi della geopolitica, in occasione della kermesse per i 130 anni del «Mattino». Una battuta che perfino in un cabaret sarebbe apparsa di pessimo gusto, visto che parliamo di guerra, massacri, fosse comuni. Ma che tanto più ha attirato l’attenzione perché il «governatore» l’ha pronunciata nel corso di un minuetto improvvisato niente di meno che con Matteo Salvini, ovvero con il leader della (già famigerata) Lega. Tutti e due convintamente ostili alla linea seguita dall’Italia nella crisi ucraina. Salvini e De Luca, com’è noto, appartengono al novero della politica populista. Sono cioè attenti a captare le onde del sentire comune, quali che siano, cercando di farsene interpreti, di valorizzarle, spesso di aizzarle. Salvini ebbe grande fortuna sollecitando la paura dei migranti e adottando uno slogan di trumpiana ascendenza: prima gli italiani. De Luca ha cavalcato la paura del Covid, presentandosi come l’Uomo Forte che l’avrebbe sconfitto. In questi anni, Salvini e De Luca (certo, non i soli) hanno imperversato su televisioni e social media. Il bonapartismo del terzo Millennio passa attraverso Facebook e Instagram. E oggi, come fosse il segno di un destino, finiscono per approdare sulle medesime sponde geopolitiche. Ma con quali obiettivi? In fondo, qualunque orrore venga alla luce a Bucha o a Mariupol, è risaputo che agli elettori del 2023 interesseranno piuttosto l’inflazione, la bolletta energetica, i «ristori» governativi. Ed è altrettanto evidente che servirebbe ben altro che gli umori russofili di Salvini o le tirate antioccidentali di De Luca per cambiare la politica estera del paese. Che rimarrà atlantista anche dopo le elezioni. L’onda neutralista non sembra cioè in grado di fruttare grandi doti elettorali a chi cerca di cavalcarla, non foss’altro perchè il campo putiniano è, come detto, assai affollato. E non avrà altro effetto – sul piano internazionale – se non quello di indebolire la credibilità del paese di fronte ai suoi alleati. Già oggi, se si legge la stampa europea, l’Italia sembra essere ridiventata il ventre molle dell’Occidente. E qui si torna al minuetto di Salvini e De Luca. I quali affondano i loro colpi di campioni della realpolitik, quasi fossero novelli Bismarck o Kissinger, ma appaiono assai poco interessati alle dinamiche del conflitto russo-ucraino e al confronto globale tra democrazie e autocrazie. Interessati a questioni infinitamente meno strategiche. Salvini, al netto di qualche amico slavo di troppo, sta cercando di ribadire la propria leadership all’interno di una Lega sempre più irrequieta di fronte al calo dei sondaggi e perciò scettica nei suoi confronti. Mentre De Luca, al netto di eventuali nostalgie sovietiche, cavalca la polemica anti-Nato per mandare a segno qualche colpo basso a Draghi e soprattutto a Enrico Letta, cioè al suo segretario. Intende ribadire di essere una sorta di territorio franco che si erge al di sopra dell’«unità nazionale» e della linea del partito. Monarca di uno stato nello stato, si ritiene in diritto di dettare anche la sua politica internazionale. Tutti e due, insomma, fanno calcoli di scala ridotta e di natura autoreferenziale. La loro «eresia» geopolitica, in modo fin troppo scoperto, non ha altro scopo se non difendere il proprio peso specifico nei rispettivi partiti, creando scompiglio al loro interno e perciò nelle fragili alleanze di centrosinistra e di centrodestra e negli equilibri di governo. Ed è questo, in ultima analisi, che sconcerta, assai più di una battuta greve. È questo che l’opinione pubblica occidentale sembra non perdonare al nostro paese. La mescolanza tra i drammatici nodi globali del momento e i piccoli interessi di bottega di qualche leader. Ovvero la mortificazione della politica con la p maiuscola. La newsletter del Corriere del MezzogiornoSe vuoi restare aggiornato sulle notizie della Campania iscriviti gratis alla newsletter del Corriere del Mezzogiorno. Arriva tutti i giorni direttamente nella tua casella di posta alle 12. Basta cliccare qui. 28 maggio 2022 | 07:44 © RIPRODUZIONE RISERVATA ,

Pietro Guerra

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