Il merito a scuola: cosè e come valutarlo. Ne parliamo in una INTERVISTA con Alessandro Bozzato, presidente dellUNIPED

Il termine Meritocrazia è stato coniato da Michael Young nel 1958. Secondo Michael Young potere e privilegi dovrebbero essere appropriati in base al merito di ciascuno, non in base alle origini sociali. Taluni hanno utilizzato la meritocrazia come retorica alle masse, credendo che fosse il metodo migliore per realizzare una società egualitaria. Quando pensiamo alla meritocrazia come a un sistema equo e oggettivo per il funzionamento di una società, dobbiamo anche considerare che il merito dipende dallo stato socioeconomico, dal genere e dalla famiglia. Ma il merito è sovente un prodotto del privilegio. Nel suo libro Success and Luck, l’economista statunitense Robert Frank descrive in dettaglio le possibilità e le correlazioni che hanno portato all’ascesa di Bill Gates come fondatore di Microsoft, nonché al successo di Frank come accademico. Affinché il merito si traduca in successo, infatti, afferma la fortuna gioca un ruolo molto importante.

La meritocrazia educativa

La meritocrazia educativa è una patina che detiene il modesto potenziale di creare una società egualitaria ma la nostra società è stata divisa in vincitori e vinti, mentre i vincitori vedono il successo meritato dalla capacità intellettuale, i secondi non hanno nessuno da incolpare se non se stessi. Abbiamo creato una nuova aristocrazia con un’aristocrazia “meritocratica” che solo leggermente è meno ingiusta di quelle precedenti basate su terre e titoli ereditari.

L’intervista a Alessandro Bozzato

Alessandro Bozzato è nato a Venezia ed è laureato in Pedagogia a Padova nel 1993. È presidente in scadenza, oggi, dell’UnIPed, l’Unione Italiana Pedagogisti. Bozzato opera come professionista e come pedagogista nel settore sociale, in prevalenza con i minori. È specializzato nei disturbi specifici dell’apprendimento e svolge attività di terapia e potenziamento basate sulla teoria prassico motoria. Affianca alla ricerca pedagogica lo studio del cinema e degli audiovisivi. Ha esperienze di insegnamento come professore a contratto di Istituzioni di Regia per l’Università di Bologna (dipartimento Beni culturali di Ravenna), come formatore per gli insegnanti delle primarie e delle secondarie nei temi dell’inclusione scolastica, dei disturbi dell’apprendimento e nell’uso degli audiovisivi. Si occupa degli screening per la rilevazione precoce dei disordini riferibili alla disprassia e alla dislessia. Tra le sue pubblicazioni i “Quaderni 1 – 2, pratiche per la clinica della dislessia” e “Gli screening diagnostici” con M. Spezzi e G. Santoni. Abbiamo chiesto a lui di rileggere la scuola parlando di “merito”, del “pedagogista scolastico” e del “sapere educativo” e del “bullismo”.

È di questi ultimi mesi il rafforzamento dell’attenzione al tema del pedagogista nelle scuole. Pedagogista che non si occupa solo del disagio emotivo dell’alunno o del docente ma interviene in tutti i contesti che hanno a che fare con le dinamiche educative. È così, possiamo dire?

«Credo possa essere utile l’intervento dello psicologo scolastico, sempre e comunque, in tutti quei casi che necessitano di un intervento clinico legato al vissuto emotivo, psicologico, e in qualche modo comportamentale. Credo che abbia un valore specifico finché si resta nello specifico professionale. Quando si ha a che fare con un problema di carattere educativo, però, è il caso di rivolgersi agli specialisti dell’educazione, cioè ai Pedagogisti. Importante, ora più che mai, proseguire il percorso che prevede l’inserimento di personale con un sapere educativo specifico, cioè il Pedagogista. Il Pedagogista non si occupa solo del disagio emotivo dell’alunno o del docente, il pedagogista interviene in tutti i contesti che hanno a che fare con le dinamiche educative».

Bullismo come disagio emotivo o come problema educativo vero e proprio?

«Il problema del bullismo non è un problema che possa essere affrontato in un unico modo: si tratta di un fenomeno complesso, che varia sulla base delle provenienze, degli ambienti e anche dei periodi. Oggi si tende a riportare il tutto al disagio emotivo, alla conflittualità adolescenziale o al senso di inadeguatezza. Va detto che in molti casi ci si trova invece ad avere a che fare con un problema educativo vero e proprio: comunicazione di valori, condivisione di pratiche comportamentali, condizionamento della cultura e dell’ambiente di appartenenza e, in alcuni casi, un vero e proprio tentativo di imitazione e identificazione in figure di riferimento. Il supporto psicologico è insufficiente se non viene affiancato da un tecnico sapere educativo e da solide competenze pedagogiche».

Cosa significa parlare di merito? In questo momento storico la parola è ritornata centrale nel dibattito politico ed educativo?

«Sul merito si rischia di fare confusione, una confusione dettata dall’approssimazione e dalla superficialità. Si rischia cioè di parlare di un falso tema, svuotando le parole del loro senso e riducendole a degli slogan. Il “merito” non è in discussione: dire di una persona che è “meritevole” significa fare un complimento; quindi, sull’accezione positiva della parola non ci sono posizioni “pro” o “contro”, ma chi si occupa di educazione con un approccio scientifico ha il dovere di distinguere quelli che tecnicamente vengono chiamati gli “indicatori”. Parlare di “merito” come fosse un concetto assoluto significa fare demagogia nel peggiore dei casi e comunicare messaggi superficiali nel migliore. Quali sono gli indicatori che ci fanno valutare l’effettivo merito? Di questo si dovrebbe discutere. Le valutazioni? Quali? In pedagogia, ad esempio, si distingue tra prospettiva diacronica e prospettiva sincronica, sembra difficile, ma è semplice: se io valuto un alunno con la verifica di oggi, sia Piero che Paolo prendono 6. Però Piero all’inizio dell’anno aveva 2, poi ha preso un 4, poi si è impegnato e ha preso 5, e poi, dandosi da fare sempre di più e sforzandosi al massimo è arrivato finalmente al 6. Paolo invece ha sempre avuto 7 e 8, ultimamente non si preoccupa più di tanto perché sa di avere la promozione in tasca e nelle ultime due verifiche ha preso la sufficienza tirata. Bene: in che modo si valuta, il merito?»

Valutare il “merito” con occhi e criteri superficiali è il vero rischio, giusto, professore?

«Vorrei concludere ricordando un episodio del 2002, poco più di 20 anni fa, ma sembra un secolo: un insegnante di terza media (oggi sarebbe la secondaria di primo grado) aveva dato per il giorno dopo il compito di rintracciare quante più notizie possibile sulle torri gemelle e sulle organizzazioni terroristiche internazionali. Alcuni studenti avevano portato ricerche con foto e illustrazioni prese da quotidiani e settimanali dell’anno prima, altri erano andati in biblioteca e si erano fatti fare delle fotocopie, tutti avevano consegnato una ricerca di un paio di pagine più o meno ordinata. A parte due ragazzi, che avevano consegnato dei mini dossier stampati al computer di una dozzina di pagine entrambi. Uno dei due con immagini a colori. Erano i soli ad avere un computer in casa, con internet e stampante a disposizione. L’insegnante si trovò successivamente in difficoltà nello spiegare ai genitori dei due ragazzi il motivo per cui entrambi avevano ottenuto un voto discreto e non superiore a quello degli altri. A loro sembrava un lavoro superiore che “meritava” una valutazione maggiore, ma proprio entrando nel merito, si poteva vedere che si trattava di un vuoto lavoro fatto solo di copia e incolla di notizie ripetute più volte, confezionato bene grazie al fatto che avevano a disposizione uno strumento professionale. Valutare il “merito” con occhi e criteri superficiali è il vero rischio di chi parla di merito come fosse un concetto assoluto».

Il sapere educativo deve diventare un elemento di confronto e di riflessione: in che senso, professore?

«Sempre parlando di merito in modo serio e non strumentale, va fatta un’ulteriore indagine sugli indicatori che si scelgono. Scegliere bene gli indicatori è un lavoro complesso che richiede professionalità, competenza, e comprensione della complessità. Non è accettabile la semplificazione, perché rischia di creare ulteriori divisioni. Se come indicatore decidessimo di verificare, ad esempio, i compiti per casa, faremmo uno sciocco errore: molti alunni, soprattutto alla primaria, vengono supportati a casa dai genitori o addirittura da ripetitori, mentre altri non hanno nessuno che li possa aiutare, a volte hanno genitori culturalmente non all’altezza o che addirittura parlano l’italiano con meno competenza del figlio. In questo caso il concetto di merito andrebbe a giustificare una posizione di privilegio di partenza e assumerebbe una connotazione classista in antitesi con le finalità stesse della scuola italiana. Non è una questione di “merito”, lo ripeto, si rischia di concentrarsi sullo slogan, di discutere della forma e dimenticare il senso: si deve lavorare sugli indicatori. Bisogna che la riflessione e la conoscenza pedagogica acquisiscano maggior importanza all’interno della scuola e bisogna fare in modo che il sapere educativo possa diventare un elemento di confronto e di riflessione non solo per chi lavora a scuola, ma anche per chi legifera, amministra e vuole riformare».

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