Il prof che non vede lora di dare un 4 ha un problema non risolto. Lo spot di Esselunga? Mi è piaciuto e vi spiego perché. INTERVISTA ad Alberto Pellai

“Il prof che non vede l’ora di dare un 4 ha un problema non risolto”. E invece gli insegnanti come tutti gli educatori – aggiunge – devono avere quattro caratteristiche. “Devono essere appassionati, competenti, autorevoli, risolti”.

E lo spot di Esselunga? “Mi è piaciuto” e vi spiego perché. Alberto Pellai ha appena risposto a una delle tante domande fatte da mamme, papà, insegnanti, accorsi in massa in chiesa a sentire il medico, psicoterapeuta, ricercatore nonché autore di un gran numero di bei libri sugli adolescenti, tra cui “L’età dello tsunami”, “L’educazione emotiva”,Tutto troppo presto”, “Vietato ai minori di 14 anni”, “Ragazzo mio” e tanti altri. L’incontro era programmato in una saletta di una parrocchia di Modena Est, che lo ha invitato a discutere di adolescenti in un incontro dal titolo “L’ascolto e l’incontro con chi cresce”, ma poi la grande affluenza – segno che i temi sono più che sentiti – ha spinto gli organizzatori ad aprire le porte della Chiesa Regina Pacis di Modena

Che cosa occorre proporre alle famiglie e alla stessa comunità. che spesso si trovano alle prese con episodi riprovevoli di giovanissimi e di bande formate da adolescenti? Basta la repressione? S’era chiesto il parroco Gianluca Sangalli nell’introdurre il relatore. E il relatore Alberto Pellai non tradisce le attese. Forte della propria esperienza di terapeuta ma anche memore di un lungo esercizio come padre di una famiglia con tanti figli – l’ultima è quattordicenne e viene spesso citata dal padre come uno dei tanti punti di riferimento, come gli altri figli, della sua azione educativa familiare – Pellai illustra le proprie strategie educative partendo dall’importanza dell’ascolto per arrivare al ruolo decisivo delle parole, alla capacità degli adulti di essere un vero faro per i figli che crescono, al di là dei problemi vecchi, nuovi e nuovissimi che investono la vita sociale, e indipendentemente dal fatto che gli adulti di riferimento più intimi siano genitori in una coppia stabile o genitori separati, “anzi ai genitori separati si richiede il doppio dell’impegno genitoriale”.

E come la mettiamo con la famosa pesca dell’ormai celebre spot televisivo di Esselunga che ha fatto irruzione nei salotti e nelle cucine abitabili di milioni di famiglie, creando momenti di emozione ma anche occasioni di protesta? Come giudicare questa storia familiare di una famiglia che s’è rotta, con una bambina che manda un frutto al padre in nome e per conto di una madre inconsapevole? Trattasi di una bambina manipolatrice, che tenta, con un regalo ortofrutticolo conto terzi, di ricomporre il legame dissolto dei propri genitori o piuttosto di una bambina che urla in silenzio il dolore di tanti bambini e bambine, ragazzi e ragazze che vorrebbero essere ascoltati e che invece non hanno voce in un mondo che corre? Sono rimasto basito per le critiche a quello spot – ammette Pellai davanti alla sua platea – È invece una narrazione bella che ci fa vedere che i bambini certe cose vogliono dirle. I bambini hanno bisogno di dire le loro cose. La critica è che è uno spot sulla famiglia tradizionale e che colpevolizza i genitori separati. Invece a mio avviso è uno spot che responsabilizza”, poiché il punto è, semmai, “come lo comunichiamo ai figli? Come trovare le parole per dirlo? E ascoltare non vuol dire che i bambini si devono adeguare”. Pellai approfondisce subito dopo il tema affidando il proprio pensiero alla sua pagina Facebook.

Un pensiero che vogliamo riportare qui perché potrebbe rivelarsi davvero di aiuto a nostri lettori che stessero vivendo il dramma di una separazione, e che magari fossero alle prese con bambini e bambine che quello spot hanno visto: “Questo spot – spiega Pellai – è stato molto criticato. Alcuni dicono che colpevolizza i genitori che si separano. Che narra qualcosa che ha il potere di aggiungere dolore ad un dolore che già c’è e che quindi non ha bisogno di essere amplificato. Io invece penso che questo spot ci dia fastidio perché ci obbliga a comprendere che quella libertà che giustamente noi adulti possiamo agire e gestire nella nostra vita ha inevitabilmente delle conseguenze sulle vite di coloro che dipendono da noi. Non c’è separazione di coppia che non porti dolore nella vita di un figlio. Quel dolore lì, ovvero quello dei figli, molti genitori preferirebbero non vederlo. Addirittura non pensarlo. “Dottore noi ci separeremo, ma non faremo soffrire i nostri figli”. Accade spesso, nello studio del terapeuta, che una coppia che sta dividendo dica questa frase. In questi casi, noi terapeuti dobbiamo aiutare quei due adulti a riformulare questa frase in un modo completamente diverso: “Vi separerete e la vostra separazione porterà molto dolore nella vita della vostra famiglia. Ma se manterrete alta l’alleanza genitoriale e lavorerete in squadra, insegnerete ai vostri figli che alcuni dolori nella vita non si possono evitare. Però si possono attraversare, elaborare e superare. Non è un’impresa facile e voi dovrete essere capitani coraggiosi dentro una tempesta che dovrete imparare ad addomesticare”. Anche nelle migliori separazioni, i figli fanno vivere ai genitori attimi di tempesta. La pesca che la bambina dona al suo papà, dicendo che gliel’ha data la mamma, è un’onda che arriva e travolge noi adulti perché ci mostra che nessun bambino è mai felice quando due genitori si separano. E questa è l’unica verità di cui dobbiamo diventare consapevoli. Questo spot ce la racconta. E ce la racconta bene. Non stigmatizza, non condanna, non colpevolizza. Al contrario, fa ciò di cui tutti i bambini hanno bisogno quando due genitori si separano: responsabilizza gli adulti. Forse per questo è così divisiva e perturbante”.

Che cosa significa essere in una posizione, adulta, di ascolto, di fronte agli adolescenti? “La sfida è grande – spiega Pellai, cercando di fornire delle risposte ai tanti accorsi all’incontro in chiesa – Loro hanno molti bisogni, dei quali però non hanno consapevolezza. Hanno molto bisogno degli adulti ma li respingono”, in una sorta “di tiro alla fune tra adulti e adolescenti”. Qual è “la vicinanza che serve per far capire che non lo stai invadendo?”  Per farsi sentire urlano. E allora “devi prima di tutto rallentare e abbassare il tono della voce. È importante iniziare da questi prerequisiti. Perché se manteniamo il tono alto loro comunicheranno con noi come se si dovessero difendere. Dobbiamo invece lavorare sul come della comunicazione. Loro sono davvero tanto affaticati nel contrasto tra due aspetti: tra il sentire l’urgenza e la potenza dei loro bisogni che vengono reclamati e pretesi, e il non avere però ancora tanti strumenti poiché quella potenza non è dotata di competenza”.

Le restrizioni recenti hanno lasciato il segno. Quello del Covid “doveva essere il tempo delle compattazioni nelle famiglie – osserva Pellai – e invece dove già c’erano fragilità il Covid è diventato un tempo di disconnessione, con figli chiusi nelle stanze, divenute invalicabili, e con l’adulto che non sa cosa succeda in quella stessa stanza e che magari lo chiama con lo smartphone per venire a pranzo”. Il pubblico assorbe, osserva, ascolta, si ritrova in tante esperienze domestiche da lockdown che si desidera dimenticare. Ma il Covid ha solo amplificato problemi di comunicazione e di ascolto che c’erano già e che, come prima e durante la pandemia, presentano domande che sovente si rivelano orfane di risposta. “Io non ho la ricetta, né la bacchetta magica”, ammette Pellai.

Eppure da qualche parte occorre partire. “A volte – prova a spiegare Pellai – sono percorsi impegnativi, ma non dimentichiamo che impariamo a parlarci nei tempi informali della nostra vita, nei tempi conviviali. E’ nei tempi dei pasti che scriviamo la nostra storia familiare”. Che fate, dunque, durante i pasti, cari genitori? Guardate la tivù o magari lo smartphone oppure si chiacchiera, si discute, si ascolta? “Quali sono gli stili con cui noi rendiamo il pasto un momento di relazione e di dialogo?” Bella domanda, in un periodo storico dominato dalle tecnologie, dallo stress, dalla fretta e, se non bastasse, dall’allattamento digitale, ricorda Pellai, con la mamma che allatta il bambino e mentre il bambino cerca gli occhi della mamma scopre che la mamma osserva uno schermo” invece che incrociare lo sguardo del bambino”.

I difetti nella relazione portano spesso a conseguenze traumatiche, a volte drammatiche. Può capitare in famiglia, può capitare a scuola. Rabbia, sconforto, disperazione, tagli, autolesionismo. I libri di Pellai raccolgono storie drammatiche e traumatiche, tratte dalla sua esperienza di terapeuta. Storie che spesso trovano una soluzione che sembrava impossibile. Ce lo ricorda il vissuto di Luigi, un ragazzo che si tagliava. “I tagli si portano via quel che sento”, racconta l’autore, ripercorrendo le frasi del ragazzo. Ma che cos’era successo nella vita di Luigi, tanto da spingerlo a tagliarsi? “Era arrabbiato – spiega Pellai – perché il professore di matematica lo aveva preso in giro. Era arrabbiato perché pensava che il padre non sarebbe stato contento se lui non fosse andato bene a scuola, era addolorato perché i genitori litigavano e forse si sarebbero separati. A scuola si parlava solo di voti e non c’era la possibilità di raccontare a nessuno la pressione che avvertiva”. Cosa fare in questi casi? “Cosa vorresti dire al papà riguardo al voto, che cosa al professore che ti ha preso in giro?”. Come fare per far emergere il dolore, per dargli un nome, un’identità e prenderlo a cazzotti? Un tempo il dolore veniva fuori con il diario, veniva fuori leggendo quel che s’era appena scritto, poi magari ripetendo ciò che s’era scritto senza leggere, cercando, per dirlo, le parole dentro di sé. Il dolore non esce se non ci sono le parole con cui veicolare la sofferenza, allora ci si affida al sangue, che sgorga, almeno lui si muove, esce, scende, sporca. “Quando vedono il sangue che esce si placano”, racconta Pellai.

Il ragazzo del libro stava male, “era un analfabeta emotivo”, racconta l’autore, “incapace di fornire una verbalizzazione del suo star male. È faticoso capire di cosa sia fatto il suo star male. Ed è difficile comunicare con persone che non hanno parole per dirlo. Se il professore di matematica mi ha preso in giro non è detto che io sia sbagliato, se papà non è contento di come io vada a scuola non è detto che io debba prendere 10”. L’importanza di tirar fuori. “Una percentuale significativa di noi ha tenuto un diario personale. Pur sapendo io le cose di me stesso, avverto il bisogno di scriverle. Perché ci sono cose dentro di me di cui non conosco l’impatto, le devo vedere descritte per esserne consapevole. Il diario assolve a questo compito. Permette di evitare il taglio. Si parte da una fragilità e si finisce in una resilienza”. Ma il diario è acqua passata, reperto di un’epoca che non c’è più. Il diario è sostituito dai social ma social non è sinonimo di comunicazione e di relazione. Anzi. “C’è un deficit di allenamento alla comunicazione – puntualizza Pellai – I ragazzi di 18 anni di oggi hanno la competenza di linguaggio dei quindicenni di tanti anni fa. Dovremmo domandarci dove abbiamo perso la competenza delle parole, specie nei maschi. Le parole servono per comunicare, per mediare e probabilmente c’è una grande povertà relazionale. Sono inoltre sguarniti della dimensione dell’amicizia. Pensate a quanti dei vostri figli hanno l’amica o l’amico del cuore, uno spazio dove impari a parlare e impari ad ascoltare. Riflettete su come un tempo fosse urgente buttare fuori quel che avevi dentro e parlare con l’amico, che se non lo racconti non sai bene di cosa si tratti, che cosa sia quello che hai dentro. È un allenamento. L’amicizia del cuore è una palestra di lancio per allenare e rendere intima una relazione”.

Ci sono i figli non compresi dai genitori e ci sono i genitori che si sentono incompresi dai figli. Litigi, conflitti, silenzi, offese reciproche, poi la magia. Il padre dice al figlio non è vero che volevo dire che non vali niente. Non è vero che volevo dire che non approvo nulla di te. La rabbia lascia allora il posto alla ricchezza. Sapere quanto sei bravo, ma non avertelo mai detto. Essere orgoglioso di te e non avertelo mai detto. Ti voglio bene, e anche questo non te l’ho mai detto. Le parole non dette. La potenza delle parole. Se dette. Il padre che chiede scusa al figlio: “Non avrei mai immaginato che chiedere scusa fosse una cosa da fare per un genitore, mi ha detto infine quel padre”, rivela Pellai. “E invece chiedere scusa è enormemente riparativo”

La responsabilità dell’adulto. Spesso si pensa che compito dell’adulto sia quello di dire di no. I famosi no che aiutano a crescere. “I no non servono nulla – è il parere di Pellai – I no servono a non accendere la nostra ansia”. Siamo più tranquilli, insomma, se non fanno, se non osano, i no servono dunque più a noi adulti che non ai ragazzi? “Ma che cosa fa sentire sentiti i nostri figli? Io trovo che gli elementi più importanti siano nello sguardo”. Ma non lo sguardo di quando vogliamo essere correttivi. “Mi arrabbio quando gioca in camera e non viene a tavola? Urlo? No, meglio mollare tutto e andare di là e dire ti stiamo aspettando. Se vogliamo cambiare lo schema, lo schema non è urlare”, ma ascoltare, ascoltarsi. E perché non darsi un appuntamento? “Ho imparato che se voglio imparare ad ascoltarci ci diamo un appuntamento. Siccome le cose che ti devo dire sono importanti ci diamo un appuntamento. Posso aspettare anche tanti giorni ma quando ci incontreremo sarò tutto per te e per me”. E se ti presenti con lo smartphone in mano, “ti dirò semplicemente quando hai finito con lo smartphone io sono pronto. A parlare con te. Guardandoti. “Lo sguardo è molto più importante del volume della voce. Quando ci sentiamo bene in una relazione significa che c’è sintonizzazione e sincronizzazione e cioè che io sento quello che senti tu. Ti vedo impaurito. Se hai bisogno ci sono”. Sincronizzare. Che cosa significa sincronizzare, in questo contesto? “Io sono in cucina, non vado a letto, mi metto nei tuoi tempi, ti aspetto. Sento quello che senti tu e mi metto nei tuoi tempi, ti aspetto”. Infine arriverai.      

Ma non sempre tutto fila liscio. Non sempre è così facile. Ne sanno qualcosa molti genitori. Ne sanno qualcosa gli insegnanti, specie quelli delle classi più difficili. “Le problematiche sono grandi, spiega un docente di Scienze motorie di un liceo di Modena che ha chiesto il microfono per fare una domanda. “La domanda è questa – dice – Come insegnante, di fronte a tanti adolescenti che non trovano le parole e a tanti adulti che non offrono spazi e occasioni di relazione e ascolto,chi colmerà queste lacune? Che adulti saranno un giorno, questi adolescenti?” Domanda terribile.“Penso che in questo vuoto – risponde Pellai – quel che succede a noi esseri umani è che cerchiamo di dirigerci verso quegli incontri che sono salvifici. Se guardiamo nella nostra storia di crescita troviamo storie di questo tipo”. E quale sarà il futuro, anche quello emotivo di questa generazione? “Io credo che molte di queste persone affaticate si rifugeranno in una esistenza individuale. Loro non sognano più una storia d’amore. Quali aspirazioni hanno? Se chiedete loro se un giorno vorranno diventare genitori, uno su due vi risponderà di no.È accaduto qualcosa che non rende più attraente progettare un dopo e questa è una roba che pagheremo ma di cui ci riapproprieremo tra due generazioni”

Pellai cita la scuola, l’importanza degli educatori, il ruolo degli insegnanti. Lo aveva fatto nei giorni scorsi in occasione dell’avvio dell’anno scolastico augurando pubblicamente sulla sua pagina Facebook buon anno scolastico a tutti i docenti dei nostri figli e figlie. Il primo giorno di scuola, aveva scritto, “sarà importante per tutti. E’nel primo incontro che spesso avvengono moltissime cose e un adulto lascia un’impronta fortissima nel cuore e nella mente di chi incontra. Se dovessi dare un consiglio ai docenti che dovranno incontrare i loro nuovi studenti, direi loro: non abbiate l’ansia di risultare simpatici, ma fate in modo che i vostri studenti si rendano conto di avere di fronte a sé adulti appassionati e competenti, risolti e autorevoli. Ognuno di questi aggettivi potrebbe essere spiegato con un volume di mille pagine. Ma se non sapete bene come “indossarlo” nelle vostre prima giornata, fate un semplice esercizio di memoria o di osservazione. Ricordate il vostro maestro/a o docente che ha lasciato dentro di voi l’impronta più profonda. Ripensate a come si muoveva in aula, come guardava voi studenti, il tono della sua voce, l’espressività del suo volto, l’energia che sprigionava durante le sue lezioni. Oppure, chiedete ai colleghi della nuova scuola in cui siete stati accolti, di indicarvi il nome di un’insegnante di quella scuola enormemente stimato da tutti. Poi osservate come parla, come si muove, come saluta gli studenti quando li incontra lungo il corridoio. Cercare di tenere a mente questi quattro aggettivi: appassionato, competente, risolto, autorevole. Quattro parole che vi raccontano perché gli studenti amano molto i docenti che sanno, che sanno fare. Ma soprattutto che sanno essere. A tutti voi, docenti, auguro un buon anno scolastico. Ogni giorno date un contributo enorme a questa nazione, a noi famiglie. Ma soprattutto ogni giorno rendete il futuro un tempo in cui è ancora possibile confrontarsi con la dimensione del desiderio e della speranza. Che è tutto ciò che vi auguro di far incontrare ai nostri figli e figlie che oggi più che mai hanno bisogno di voi per imparare a tenere alto lo sguardo sulla vita.

Se volete e potete condividete questo messaggio con un docente, maestro, educatore che sa lasciare una buona impronta nella vita dei suoi studenti”.

Appassionato, competente, autorevole e risolto. Quattro aggettivi che riecheggiano anche in questa serata trascorsa sui banchi. I banchi stavolta di una chiesa. Significa che “non devi avere l’ansia di essere l’amico di chi stai educando, che c’è un adulto che ha cura della tua crescita. Che guarda a te come a qualcosa che ha un valore per lui”. Sì, ma risolto che significa, professor Pellai?, chiede a tempo scaduto una signora, che ottiene il microfono ai supplementari: “ Vuol dire ad esempio che se un prof dice agli alunni non rompete, ché ho problemi miei, questo è un problema non risolto. Vuol dire ad esempio che se il prof che non vede l’ora di dare dei 4 ha un problema non risolto”

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