Il tempo è di Dio, insegnava la Chiesa medievale, condannando perciò i mercanti, che il tempo lo mettevano a frutto per arricchirsi. Uno stigma che la civiltà delle macchine avrebbe mandato in fumo. Le nere locomotive della rivoluzione industriale facevano venire le vertigini ai primi passeggeri. Un secolo più tardi, Boccioni mise su tela l’adorazione futurista per i ritmi affannosi della vita moderna. Finché, oggi, è l’esperienza stessa dell’attesa che sembra tramontata: informazioni e relazioni avvengono in tempo reale. Ma questi sono ragionamenti libreschi. Chi vive nella radiosa capitale del Mezzogiorno assapora piuttosto quel che Fernand Braudel chiamò il «tempo lungo», il lento quasi impercettibile scorrere delle società lungo i secoli, distinguendolo dal tempo breve, dal tempo degli avvenimenti. La vita di Napoli sembra scandita dalle scansioni divine della Chiesa medievale più che dalla velocità del web. È una constatazione che ammette pochi dubbi. In questi giorni, com’era prevedibile, si è aperto in città il dibattito sulla nuova piazza Municipio, è bella, è brutta, è maestosa, è desolata. Ma forse, al di là del giudizio estetico, un pensiero andrebbe dedicato anche alla cronologia: quel cantiere è stato (parzialmente) completato dopo la bellezza di ventidue anni. Fu aperto all’alba del Terzo Millennio, con la promessa che sarebbe stato chiuso in tempi assai brevi. E naturalmente non sono mancate le ragioni del ritardo, la scoperta (prevedibile) dei resti archeologici, l’inceppo nei finanziamenti, ecc. Ma intanto sarebbe da chiedersi quanto il ventennio trascorso abbia cambiato le carte in tavola, cioè l’attualità del progetto, le tecniche ingegneristiche, le prospettive culturali, gli stessi occhi di chi oggi assiste alla chiusura del cantiere e nel 2000 aveva vent’anni di meno o non era neppure nato. Gli undici chilometri della metropolitana di Napoli del resto hanno vicende che fanno impallidire le stesse lungaggini di piazza Municipio. La prima pietra venne solennemente posata a piazza Medaglie d’Oro, sotto la pioggia, da un sindaco che da poco era stato eletto e che si chiamava – sia detto per i più giovani – Maurizio Valenzi. Era il 22 dicembre del 1976, cioè quarantacinque anni orsono. E perciò chi sfogli oggi l’album di famiglia della Linea 1, chi vada a ripescare le immagini scolorite delle infinite inaugurazioni (ventuno, per l’esattezza) che l’hanno celebrata stazione dopo stazione, vi potrà rintracciare i volti e la storia di una città e di un intero paese, le massime autorità chiamate al taglio del nastro tricolore, i sindaci, i «governatori», i ministri, i presidenti della repubblica, Cossiga e Ciampi, Prodi e Amato, Del Rio e Lupi, Bassolino e Caldoro, Iervolino e De Magistris. Nel frattempo, da quel remoto 1976, le forze della natura e le opere dell’uomo cambiavano profondamente la scenografia, le brigate Rosse uccidevano Aldo Moro, la città veniva colpita dal terremoto, finiva l’Ilva e la classe operaia, i magistrati mandavano ai ferri la politica, scoppiava lo tsunami Berlusconi, nasceva e moriva l’Ulivo, il paese entrava nell’euro, dilagavano i leghisti, poi gli arancioni, poi la moltitudine del Vaffa. Fino ai morti da Covid e ai cannoni di Putin. Ma intanto la Linea 1 era sempre al suo posto, imperturbabile, mai ultimata. Testimone e al tempo stesso estranea alle vicende del mondo. Una sorta di fiume carsico che scorre lento al di sotto della vita. Ecco, è questo tempo fuori dal tempo che solleva problemi i quali, a dire il vero, avrebbero bisogno di tutt’altra penna, dilemmi filosofici, nodi sociologici, questioni di mentalità. Difficile dire, ad esempio, se un simile rallentamento delle cose venga imposto a Napoli da eventi esterni o sia il frutto di scelte, tendenze, «vizi» dei suoi stessi abitanti. Quel che sembra certo, o molto probabile, è che la città finisce per considerare consueta, naturale una scansione tra passato e futuro che è invece patologica. Finisce per costruire una cultura dell’attesa illimitata che cozza con i requisiti elementari della moderna quotidianità. Che azzera la tensione dell’aspettativa e anche della speranza. Che entra nelle fibre nervose di un’intera cittadinanza spogliandola di ogni pretesa, reazione, moto di protesta. È perfino ingenuo chiedersi cosa potrebbe accadere a Milano o a Bologna o a Torino se un’opera pubblica di primaria importanza impiegasse il tempo di due generazioni per realizzarsi. Se la sostituzione del tram Fuorigrotta-San Giovanni con il Metro 6, decisa nel 1988, restasse trentaquattro anni dopo un’incompiuta. Se la valorizzazione della splendida baia di Bagnoli fosse ancora ai nastri di partenza a oltre tre decenni dalla chiusura dell’acciaieria. Se enormi risorse come l’Albergo dei Poveri o il Molo San Vincenzo continuassero a fare incetta di progetti e idee di ogni tipo e qualità e rimanessero tuttavia inutilizzate, abbandonate al loro destino, malinconicamente deserte. Grandi opere, si dirà, investimenti impegnativi. Sì, ma che dire allora dello Sferisterio, un luogo tradizionalmente assai frequentato di svaghi, sport (e scommesse)? Giace da oltre trentacinque anni in rovina, sventrato nel 1986 da un incendio. Che la colpa sia dolosa, preterintenzionale o volontaria, certo è che Napoli accetta questa sorta di soprannaturale lentezza senza mai dire una parola, come fosse una fatalità, con stupefacente indifferenza. Sebbene, come diceva Aristotele, «il tempo consuma le cose e tutto invecchia col tempo». Parole che, a proposito di modelli di vita urbani, evocano un altro nodo insidioso: l’obsolescenza. Dopotutto è difficile e forse addirittura inutile «pensare la città», quando si tratta delle idee (e delle tecniche) di generazioni passate. 14 aprile 2022 | 08:59 © RIPRODUZIONE RISERVATA , 2022-04-14 06:59:00, Il tempo è di Dio, insegnava la Chiesa medievale, condannando perciò i mercanti, che il tempo lo mettevano a frutto per arricchirsi. Uno stigma che la civiltà delle macchine avrebbe mandato in fumo. Le nere locomotive della rivoluzione industriale facevano venire le vertigini ai primi passeggeri. Un secolo più tardi, Boccioni mise su tela l’adorazione futurista per i ritmi affannosi della vita moderna. Finché, oggi, è l’esperienza stessa dell’attesa che sembra tramontata: informazioni e relazioni avvengono in tempo reale. Ma questi sono ragionamenti libreschi. Chi vive nella radiosa capitale del Mezzogiorno assapora piuttosto quel che Fernand Braudel chiamò il «tempo lungo», il lento quasi impercettibile scorrere delle società lungo i secoli, distinguendolo dal tempo breve, dal tempo degli avvenimenti. La vita di Napoli sembra scandita dalle scansioni divine della Chiesa medievale più che dalla velocità del web. È una constatazione che ammette pochi dubbi. In questi giorni, com’era prevedibile, si è aperto in città il dibattito sulla nuova piazza Municipio, è bella, è brutta, è maestosa, è desolata. Ma forse, al di là del giudizio estetico, un pensiero andrebbe dedicato anche alla cronologia: quel cantiere è stato (parzialmente) completato dopo la bellezza di ventidue anni. Fu aperto all’alba del Terzo Millennio, con la promessa che sarebbe stato chiuso in tempi assai brevi. E naturalmente non sono mancate le ragioni del ritardo, la scoperta (prevedibile) dei resti archeologici, l’inceppo nei finanziamenti, ecc. Ma intanto sarebbe da chiedersi quanto il ventennio trascorso abbia cambiato le carte in tavola, cioè l’attualità del progetto, le tecniche ingegneristiche, le prospettive culturali, gli stessi occhi di chi oggi assiste alla chiusura del cantiere e nel 2000 aveva vent’anni di meno o non era neppure nato. Gli undici chilometri della metropolitana di Napoli del resto hanno vicende che fanno impallidire le stesse lungaggini di piazza Municipio. La prima pietra venne solennemente posata a piazza Medaglie d’Oro, sotto la pioggia, da un sindaco che da poco era stato eletto e che si chiamava – sia detto per i più giovani – Maurizio Valenzi. Era il 22 dicembre del 1976, cioè quarantacinque anni orsono. E perciò chi sfogli oggi l’album di famiglia della Linea 1, chi vada a ripescare le immagini scolorite delle infinite inaugurazioni (ventuno, per l’esattezza) che l’hanno celebrata stazione dopo stazione, vi potrà rintracciare i volti e la storia di una città e di un intero paese, le massime autorità chiamate al taglio del nastro tricolore, i sindaci, i «governatori», i ministri, i presidenti della repubblica, Cossiga e Ciampi, Prodi e Amato, Del Rio e Lupi, Bassolino e Caldoro, Iervolino e De Magistris. Nel frattempo, da quel remoto 1976, le forze della natura e le opere dell’uomo cambiavano profondamente la scenografia, le brigate Rosse uccidevano Aldo Moro, la città veniva colpita dal terremoto, finiva l’Ilva e la classe operaia, i magistrati mandavano ai ferri la politica, scoppiava lo tsunami Berlusconi, nasceva e moriva l’Ulivo, il paese entrava nell’euro, dilagavano i leghisti, poi gli arancioni, poi la moltitudine del Vaffa. Fino ai morti da Covid e ai cannoni di Putin. Ma intanto la Linea 1 era sempre al suo posto, imperturbabile, mai ultimata. Testimone e al tempo stesso estranea alle vicende del mondo. Una sorta di fiume carsico che scorre lento al di sotto della vita. Ecco, è questo tempo fuori dal tempo che solleva problemi i quali, a dire il vero, avrebbero bisogno di tutt’altra penna, dilemmi filosofici, nodi sociologici, questioni di mentalità. Difficile dire, ad esempio, se un simile rallentamento delle cose venga imposto a Napoli da eventi esterni o sia il frutto di scelte, tendenze, «vizi» dei suoi stessi abitanti. Quel che sembra certo, o molto probabile, è che la città finisce per considerare consueta, naturale una scansione tra passato e futuro che è invece patologica. Finisce per costruire una cultura dell’attesa illimitata che cozza con i requisiti elementari della moderna quotidianità. Che azzera la tensione dell’aspettativa e anche della speranza. Che entra nelle fibre nervose di un’intera cittadinanza spogliandola di ogni pretesa, reazione, moto di protesta. È perfino ingenuo chiedersi cosa potrebbe accadere a Milano o a Bologna o a Torino se un’opera pubblica di primaria importanza impiegasse il tempo di due generazioni per realizzarsi. Se la sostituzione del tram Fuorigrotta-San Giovanni con il Metro 6, decisa nel 1988, restasse trentaquattro anni dopo un’incompiuta. Se la valorizzazione della splendida baia di Bagnoli fosse ancora ai nastri di partenza a oltre tre decenni dalla chiusura dell’acciaieria. Se enormi risorse come l’Albergo dei Poveri o il Molo San Vincenzo continuassero a fare incetta di progetti e idee di ogni tipo e qualità e rimanessero tuttavia inutilizzate, abbandonate al loro destino, malinconicamente deserte. Grandi opere, si dirà, investimenti impegnativi. Sì, ma che dire allora dello Sferisterio, un luogo tradizionalmente assai frequentato di svaghi, sport (e scommesse)? Giace da oltre trentacinque anni in rovina, sventrato nel 1986 da un incendio. Che la colpa sia dolosa, preterintenzionale o volontaria, certo è che Napoli accetta questa sorta di soprannaturale lentezza senza mai dire una parola, come fosse una fatalità, con stupefacente indifferenza. Sebbene, come diceva Aristotele, «il tempo consuma le cose e tutto invecchia col tempo». Parole che, a proposito di modelli di vita urbani, evocano un altro nodo insidioso: l’obsolescenza. Dopotutto è difficile e forse addirittura inutile «pensare la città», quando si tratta delle idee (e delle tecniche) di generazioni passate. 14 aprile 2022 | 08:59 © RIPRODUZIONE RISERVATA ,