In Italia si entra in ruolo tra i 40 e i 50 anni. Qualcosa non va nel sistema di reclutamento, troppa precarizzazione della professione. I più anziani dEuropa

I docenti che entrano in ruolo prima dei 40 anni sono in numero inferiore rispetto alle fasce d’età successive. I numeri diventano più “imbarazzanti” man mano che alziamo l’ordine e grado di scuola, fino a raggiungere il culmine alla secondaria di II grado. I numeri sono di fonte INDIRE e sono stati raccolti, analizzati e pubblicati su “I numeri da cambiare”, edizioni Giunti, a cura dell’associazione Treellle.

Età media 50 anni

La più alta del gruppo di stati OECD, analizzati in uno studio “Education at a Glance”. L’Italia dal 2010 al 2019 ha mantenuto una media di poco più di 50 anni di età per i docenti della scuola secondaria di I e II grado, con picchi di quasi 51 anni nel 2012.

Se si considerano paesi come la Cora del Sud, lo scarto d’età dei docenti arriva anche a 10 anni, stessa cosa per il Giappone e soprattutto il Regno unito, che nel 2019 conta una media di 39,9 anni. Da evidenziare la parabola discendente al ringiovanimento della classe docente della Germania, che dai 48,4 anni del 2010 passa ai 46,3 anni del 2019.

Si entra in ruolo molto tardi

Seconda nota dolente, in ruolo si entra prevalentemente tra i 40 e i 49 anni e spesso dopo una lunga se non lunghissima gavetta di precariato. Dati che raggiungono l’apice per le secondarie di II grado, mentre per Infanzia i numeri sono più attenutati.

A dire che l’insegnamento stia andando verso la deriva della precarizzazione sono i numeri, che ieri abbiamo fornito in un articolo, sempre raccolti sul libro in oggetto.

In 6 anni i docenti precari (soprattutto al Nord) sono praticamente raddoppiati, mentre i concorsi stentano a coprire i posti disponibili, lasciando in media liberi la metà dei posti vacanti dei pensionamenti.

Il problema passa sempre dallo stesso collo di bottiglia: la necessità di accelerare la frequenza e lo svolgimento dei concorsi a cattedra, rendere la professione appetibile a partire dagli stipendi e valorizzare l’immagine sociale dell’insegnante. Elementi questi che renderebbero anche più appetibile la professione alle nuove prossime generazioni di neolaureati.

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