Perché gli inglesi non perdono le guerre

Caro Aldo,
lei ha scritto che gli inglesi non hanno mai perso una guerra. È un bel primato, ammesso che nessun altro popolo al mondo (tranne quelli che la guerra non l’hanno mai fatta) lo condivida con essi. Questione di fortuna, di destino, di merito, di organizzazione militare, di comandanti lungimiranti o dello stesso popolo? Sono stati gli inglesi ad aver voluto che la loro nazione non perdesse mai la guerra? Se sì, perché da noi in Italia un popolo siffatto non lo abbiamo mai avuto?
Mansueto Piasini

Caro Mansueto,
Ho trovato la risposta alla sua domanda lo scorso 11 novembre, giorno che per gli inglesi corrisponde alla fine della Grande Guerra. A Cambridge quasi tutti i professori e molti allievi avevano all’occhiello il papavero rosso, in memoria dei caduti. Fiori freschi adornavano le pareti dei vari college dove sono incisi i nomi degli allievi morti nelle trincee; a volte è inciso, a parte, anche il nome di qualche allievo tedesco o ungherese, arruolato sull’altro fronte. La memoria della prima guerra mondiale è insomma incomparabilmente più viva in Inghilterra che in Italia (molti nostri giovani pensano che la Grande Guerra sia la seconda, non la prima). Si noti che gli inglesi non combattevano, a differenza dei nostri nonni, per difendere il proprio territorio; semmai la propria egemonia politica, economica, culturale. L’impero perse oltre un milione di uomini, e «most of them rest in France», la maggior parte di loro riposa in terra francese, com’è scritto nella lapide che li ricorda a Notre-Dame. Fino al 1917 gli inglesi non dovettero introdurre la coscrizione obbligatoria. Cioè mentre in altri eserciti molte reclute si sparavano sui piedi e si cavavano i denti per non andare in trincea, i giovani di Cambridge, di Londra, di Oxford, di Liverpool, di Birmingham che era allora la seconda città della Gran Bretagna partivano volontari, senza che nessuno li costringesse. Quanto alla seconda guerra mondiale, nell’ultimo, splendido libro di Federico Rampini (Il lungo inverno, Mondadori) ci sono illuminanti pagine sulla vera austerity: non quella del nostro tiepido autunno, e neppure quella delle domeniche a targhe alterne del 1974; quella di Londra dopo la seconda guerra mondiale, quando gli inglesi erano più poveri e affamati dei popoli che avevano sconfitto. In sintesi: per gli inglesi la guerra non è una fanfaronata da minacciare, o una sciagura da evitare; è una sfida da vincere.

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Storia

«I miei inquilini del Marocco: qui non si integrano»

Mia moglie possiede ad Asti un fabbricato lasciato in eredità dal suo papà, era una grande cascina costruita nel 1882. I dieci alloggi che la compongono sono stati ristrutturati fra il 1995 e il 2003. Sono case di ringhiera, gli affitti, quindi, sono circa la metà degli affitti per metratura equivalente in fabbricati nuovi. Sono affittati a due albanesi, una romena e sette cittadini del Marocco (non mi piace la parola marocchino, che almeno in Piemonte ha un senso di insulto), che negli ultimi 7-8 anni hanno conquistato la maggioranza. Famiglie con bambini piccoli. Da allora la casa è diventata una fogna: escrementi sulle scale dal primo al secondo piano; spazzatura nell’androne e nell’area verde; rifiuti buttati a terra (e si rifiutano di pagare la loro parte di multa, dicendo «non sono stato io»); vandalismi, taglia-unghie e termometro nello scarico del bidet (e si lamentavano che il bidet non funzionava); per non parlare delle quattro volte in cui di notte mi sono vestito e sono andato nel fabbricato (dove non abitiamo) aspettando la forza pubblica per far smettere un discreto gruppo di persone ubriache che festeggiavano, urlando e cantando, il compleanno (per legge non posso introdurre un divieto nei contratti di affitto). Un’altra volta in pieno lockdown quattro ubriachi nel cortile (in barba al divieto di accesso in quanto proprietà privata) stavano facendo il barbecue sotto il soffitto in legno del portico (del 1882). Non so quelli di Bruxelles, ma i miei inquilini sono persone adulte con famiglia, che non si adattano (e rifiutano di adattarsi) al modo di vivere e abitare un alloggio in Italia.
Giuseppe C.

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Vi proponiamo di mettere in comune esperienze e riflessioni. Condividere uno spazio in cui discutere senza che sia necessario alzare la voce per essere ascoltati. Continuare ad approfondire le grandi questioni del nostro tempo, e contaminarle con la vita. Raccontare come la storia e la cronaca incidano sulla nostra quotidianità. Ditelo al Corriere.

MARTEDI – IL CURRICULUM

Pubblichiamo la lettera con cui un giovane o un lavoratore già formato presenta le proprie competenze: le lingue straniere, l’innovazione tecnologica, il gusto del lavoro ben fatto, i mestieri d’arte; parlare cinese, inventare un’app, possedere una tecnica, suonare o aggiustare il violino

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MERCOLEDI – L’OFFERTA DI LAVORO

Diamo spazio a un’azienda, di qualsiasi campo, che fatica a trovare personale: interpreti, start-upper, saldatori, liutai. 

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GIOVEDI – L’INGIUSTIZIA

Chiediamo di raccontare un’ingiustizia subita: un caso di malasanità, un problema in banca; ma anche un ristorante in cui si è mangiato male, o un ufficio pubblico in cui si è stati trattati peggio. Sarà garantito ovviamente il diritto di replica

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VENERDI -L’AMORE

Chiediamo di raccontarci una storia d’amore, o di mandare attraverso il Corriere una lettera alla persona che amate. Non la posta del cuore; una finestra aperta sulla vita. 

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SABATO -L’ADDIO

Vi proponiamo di fissare la memoria di una persona che per voi è stata fondamentale. Una figlia potrà raccontare un padre, un marito la moglie, un allievo il maestro. Ogni sabato scegliamo così il profilo di un italiano che ci ha lasciati. Ma li leggiamo tutti, e tutti ci arricchiranno. 

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DOMENICA – LA STORIA

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Ogni giorno scegliamo un’immagine che vi ha fatto arrabbiare o vi ha emozionati. La testimonianza del degrado delle nostre città, o della loro bellezza.

Inviateci le vostre foto su Instagram all’account @corriere

, 2022-12-01 22:35:00,

Caro Aldo,
lei ha scritto che gli inglesi non hanno mai perso una guerra. È un bel primato, ammesso che nessun altro popolo al mondo (tranne quelli che la guerra non l’hanno mai fatta) lo condivida con essi. Questione di fortuna, di destino, di merito, di organizzazione militare, di comandanti lungimiranti o dello stesso popolo? Sono stati gli inglesi ad aver voluto che la loro nazione non perdesse mai la guerra? Se sì, perché da noi in Italia un popolo siffatto non lo abbiamo mai avuto?
Mansueto Piasini

Caro Mansueto,
Ho trovato la risposta alla sua domanda lo scorso 11 novembre, giorno che per gli inglesi corrisponde alla fine della Grande Guerra. A Cambridge quasi tutti i professori e molti allievi avevano all’occhiello il papavero rosso, in memoria dei caduti. Fiori freschi adornavano le pareti dei vari college dove sono incisi i nomi degli allievi morti nelle trincee; a volte è inciso, a parte, anche il nome di qualche allievo tedesco o ungherese, arruolato sull’altro fronte. La memoria della prima guerra mondiale è insomma incomparabilmente più viva in Inghilterra che in Italia (molti nostri giovani pensano che la Grande Guerra sia la seconda, non la prima). Si noti che gli inglesi non combattevano, a differenza dei nostri nonni, per difendere il proprio territorio; semmai la propria egemonia politica, economica, culturale. L’impero perse oltre un milione di uomini, e «most of them rest in France», la maggior parte di loro riposa in terra francese, com’è scritto nella lapide che li ricorda a Notre-Dame. Fino al 1917 gli inglesi non dovettero introdurre la coscrizione obbligatoria. Cioè mentre in altri eserciti molte reclute si sparavano sui piedi e si cavavano i denti per non andare in trincea, i giovani di Cambridge, di Londra, di Oxford, di Liverpool, di Birmingham che era allora la seconda città della Gran Bretagna partivano volontari, senza che nessuno li costringesse. Quanto alla seconda guerra mondiale, nell’ultimo, splendido libro di Federico Rampini (Il lungo inverno, Mondadori) ci sono illuminanti pagine sulla vera austerity: non quella del nostro tiepido autunno, e neppure quella delle domeniche a targhe alterne del 1974; quella di Londra dopo la seconda guerra mondiale, quando gli inglesi erano più poveri e affamati dei popoli che avevano sconfitto. In sintesi: per gli inglesi la guerra non è una fanfaronata da minacciare, o una sciagura da evitare; è una sfida da vincere.

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Storia

«I miei inquilini del Marocco: qui non si integrano»

Mia moglie possiede ad Asti un fabbricato lasciato in eredità dal suo papà, era una grande cascina costruita nel 1882. I dieci alloggi che la compongono sono stati ristrutturati fra il 1995 e il 2003. Sono case di ringhiera, gli affitti, quindi, sono circa la metà degli affitti per metratura equivalente in fabbricati nuovi. Sono affittati a due albanesi, una romena e sette cittadini del Marocco (non mi piace la parola marocchino, che almeno in Piemonte ha un senso di insulto), che negli ultimi 7-8 anni hanno conquistato la maggioranza. Famiglie con bambini piccoli. Da allora la casa è diventata una fogna: escrementi sulle scale dal primo al secondo piano; spazzatura nell’androne e nell’area verde; rifiuti buttati a terra (e si rifiutano di pagare la loro parte di multa, dicendo «non sono stato io»); vandalismi, taglia-unghie e termometro nello scarico del bidet (e si lamentavano che il bidet non funzionava); per non parlare delle quattro volte in cui di notte mi sono vestito e sono andato nel fabbricato (dove non abitiamo) aspettando la forza pubblica per far smettere un discreto gruppo di persone ubriache che festeggiavano, urlando e cantando, il compleanno (per legge non posso introdurre un divieto nei contratti di affitto). Un’altra volta in pieno lockdown quattro ubriachi nel cortile (in barba al divieto di accesso in quanto proprietà privata) stavano facendo il barbecue sotto il soffitto in legno del portico (del 1882). Non so quelli di Bruxelles, ma i miei inquilini sono persone adulte con famiglia, che non si adattano (e rifiutano di adattarsi) al modo di vivere e abitare un alloggio in Italia.
Giuseppe C.

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MARTEDI – IL CURRICULUM

Pubblichiamo la lettera con cui un giovane o un lavoratore già formato presenta le proprie competenze: le lingue straniere, l’innovazione tecnologica, il gusto del lavoro ben fatto, i mestieri d’arte; parlare cinese, inventare un’app, possedere una tecnica, suonare o aggiustare il violino

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, Aldo Cazzullo

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