Intervista a Mughini:  «Il “Muggenheim”, la mia casa museo, è quel che  resta di me» Le immagini 

di Aldo Cazzullo

Intervista a Giampiero Mughini che racconta la sua casa museo: «De Gregori mi considerava antipatico, oggi siamo legati. Tra i miei amici Diliberto e D’Agostino»

Giampiero Mughini, sul muro della sua casa-museo che dà il titolo al suo ultimo libro — «Il Muggenheim» —, è scritto che lei onora, tra gli altri, Leo Longanesi e Beppe Fenoglio.

«Certo. Cosa la sorprende?».

Longanesi coniò lo slogan «il Duce ha sempre ragione». Fenoglio scrisse, parlando di sé partigiano: «E nel momento in cui partì, si sentì investito, in nome dell’autentico popolo d’Italia, a opporsi in ogni modo al fascismo…».

«“…E anche fisicamente non era mai stato così uomo: piegava erculeo il vento e la terra”. Beppe Fenoglio, nato cent’anni fa in questi stessi giorni, è uno scrittore e un uomo meraviglioso. Ma Longanesi è l’italiano più italiano che ci sia; e molti nostri compatrioti non sanno o non vogliono sapere quanto profondamente italiano sia stato il fascismo. Il fascismo non è stato solo melma, ha coinvolto alcuni tra i più grandi artisti del secolo. Longanesi è l’inventore di Omnibus, da cui discendono tutti i rotocalchi italiani. Ovviamente ne custodisco la raccolta completa».

Lei scrive che gli anni tra i ’50 e gli ’80 del Novecento sono stati i più ricchi nella storia dell’uomo per la produzione di carta.

«Libri, cataloghi, poster, riviste, plaquette, inviti di mostre: carte originali, si intende. Prime edizioni. Ne sono circondato, è quel che resta di me. Devo averle a portata del mio sguardo e della mia anima. E poi fotografie, poesia visiva, vinili… Per anni le carte hanno confortato la mia solitudine».

Lei è un uomo così solo?

«Sono stato lasciato solo. Da ragazzo a Catania diffondevo i Quaderni Rossi di Vittorio Rieser. Ma quando telefonai a Rieser per chiedergli un’intervista mi rispose che non parlava con un giornalista borghese. Mai avrei creduto che una simile puttanata potesse uscire dalla bocca di un essere umano».

Non ha amici?

«Ho nuovi amici. L’Oliviero Diliberto che frequento deve essere il fratello gemello del Diliberto che voleva rifondare il comunismo; ora siamo d’accordo su ogni cosa. Quando incontrai Francesco De Gregori, mi confidò che come quasi tutti mi considerava profondamente antipatico».

E ora?

«Siamo legati. Anche perché Francesco sa che pochi ricorderebbero in pubblico quel che ricordo io: che quando suo padre andò a recuperare il corpo dello zio di cui porta il nome, Francesco De Gregori, massacrato dai partigiani comunisti a Porzus, stentò a riconoscerlo. Di Porzus non sta bene parlare. In Francia non è così».

Perché?

«Perché già nel 1951 il capo di Gallimard, Jean Paulhan, che durante la Resistenza aveva rischiato di essere messo al muro, pubblica lo straordinario romanzo di uno scrittore collaborazionista, condannato a morte e poi graziato: Les deux étendards di Lucien Rebatet. Un libro di cui François Mitterrand, il primo presidente socialista della Quinta Repubblica, diceva che esistono due categorie di persone: quelli che l’hanno letto, e quelli che non l’hanno letto».

Confesso di appartenere alla seconda categoria. Paulhan è l’uomo che ispirò Histoire d’O.

«Purtroppo non avevo i 102 mila euro per comprare il lotto 341 della leggendaria collezione d’erotica di un industriale svizzero, la più grande d’Europa…».

Cosa c’era nel lotto 341?

«I sei quaderni su cui Pauline Réage scriveva a mano, alla sera tarda, il suo magistrale romanzo, da cui purtroppo è stato tratto un filmetto».

Con Corinne Cléry però.

«Corinne è meravigliosa, ma il romanzo è altro. Pauline Réage si chiamava in realtà Dominique Aury, lavorava da Gallimard e si era innamorata perdutamente di Jean Paulhan. Lui però non lasciò mai la moglie: ogni sera tornava a casa. Per sublimare la propria sofferenza, lei creò la storia di una donna che pur di compiacere l’uomo che ama si presta a ogni sottomissione erotica ad altri uomini. Un capolavoro che i santoni di Gallimard, da Camus in giù, rifiutarono di pubblicare. Per fortuna un giorno per strada Paulhan incontrò un altro editore, Jean-Jacques Pauvert, che aveva rischiato il carcere per aver pubblicato l’opera del marchese de Sade. Pauvert stampò Histoire d’O in seicento copie. Una è questa che lei vede».

Fu subito un successo?

«Non se ne accorse nessuno. La fortuna del romanzo fu un alto prelato di Parigi, che forse l’aveva letto avidamente, e dal pulpito tuonò contro tanta perversione».

Lei racconta anche la storia di un altro libro scandaloso, Un roman sentimental di Alain Robbe-Grillet.

«Pubblicato quando Robbe-Grillet aveva già 85 anni, e gliene restava uno solo da vivere. Un romanzo sfrontatamente erotico, al punto che nelle librerie francesi lo trovavi serrato nel cellophane, con un rettangolino di carta che avvisava i curiosi di non sfogliarne le pagine, per non mettere a rischio la propria sensibilità. Infatti ne ho due copie: una l’ho letta e riletta, l’altra è ancora nel cellophane. Ma ora basta, se no mi prendono per un maniaco».

Perché, lei non ha manie?

«Io non ho manie; io ho passioni. E sono sensibile a tutto ciò che negli uomini è tenebra, solitudine, dolore».

Resisterà la carta nella civiltà digitale?

«I libri sì. Quando su Amazon compro qualche gioiello di una libreria antiquaria, il giorno dopo mi arriva un biglietto di ringraziamento del libraio. Jeff Bezos non è il nostro signore e padrone. È il nostro corriere».

Lei non è sui social, dove ci sono influencer da milioni di follower.

«Sono numeri che non significano assolutamente nulla. Il tenente Serra stampò la prima edizione del Porto sepolto di Ungaretti in ottanta copie, compresa questa che vede. Eppure “mi illumino di immenso” è per sempre».

Quante delle 80 copie furono vendute?

«Nemmeno una. Erano per gli amici. Andò meglio l’edizione successiva, per la quale Ungaretti chiese la prefazione a Mussolini. Il poeta si ritrovò in un’anticamera piena di questuanti. Furono mandati via tutti. Il Duce ricevette solo il tenente Serra, Ardengo Soffici e Ungaretti, che peraltro lavorava per il suo giornale, il Popolo d’Italia».

Nel libro da ogni oggetto, da ogni stanza del «Muggenheim» scaturisce una storia. In particolare da quella che lei chiama la stanza degli anni Cinquanta.

«Un decennio straordinario: il cinema neorealista, le architetture di Giò Ponti, le tele di Burri, le opere di Ico Parisi, siciliano cresciuto a Como alla scuola di Terragni… Purtroppo gli stranieri ci stanno portando via tutto. Un museo americano ha pagato quattro volte quello che avevo offerto per tre “Libri illeggibili” di Bruno Munari, che in Francia considerano il Leonardo del Novecento. Una biblioteca americana ha comprato il primo e affascinante libro illustrato da Ettore Sottsass…».



Lei ha intervistato Sottsass, che ha parole dolcissime per l’ex moglie, Fernanda Pivano.

«Ettorino, come lo chiamavano, ha amato Fernanda, ma ha amato altre donne; la lasciò per una spagnola, Eulalia, poi sposò un’intellettuale importante, Barbara Radice. Per la Pivano esisteva soltanto lui. Una volta nominai la Radice in sua presenza. Mi gelò: “Ti sei pulito la bocca, ora che hai pronunciato quel nome?”».

Tra i suoi amici c’è Roberto D’Agostino.

«La sua collezione d’arte è tra le più raffinate d’Europa. Ma gli invidio solo il tavolo in vetro e bronzo che Andrea Salvetti andò apposta a montargli nella sua casa sul Lungotevere. Per fortuna poi Salvetti venne anche da me, a erigere l’albero in metallo blu elettrico sulla mia terrazza».

Lei scrive che il Settantasette fu meglio del Sessantotto.

«Certo. Meglio Freak Antoni e Andrea Pazienza di Mao. E a Bologna c’era anche Umberto Eco. La prima edizione del suo volumetto “Filosofi in libertà”, 1958, è una leccornia della mia collezione. Incontrai Eco nella carrozza ristorante di un treno. La prima cosa che gli chiesi era se quel suo aureo libretto avesse una sovracoperta. Per fortuna non l’aveva».

Cioè lei ha incontrato il più importante intellettuale italiano del dopoguerra, e gli ha chiesto della sovracoperta?

«Eco apprezzò moltissimo. Se fosse esistita la sovracoperta, la mia copia non varrebbe nulla».

Quanto vale invece?

«Comunque poco. Perché è un libro che non conosce nessuno. Ora l’ha ripubblicato Elisabetta Sgarbi».

Chi è il più grande scrittore di ogni tempo?

«Che domande! Ovviamente Dante. Dante non è uno scrittore; è un costruttore. Ha edificato un mondo, un universo. Come se un uomo solo avesse costruito New York».

20 marzo 2022 (modifica il 20 marzo 2022 | 08:20)

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, 2022-03-20 22:24:00, Intervista a Giampiero Mughini che racconta la sua casa museo: «De Gregori mi considerava antipatico, oggi siamo legati. Tra i miei amici Diliberto e D’Agostino», Aldo Cazzullo

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