«Io, Giorgio, le spezie e un best seller in cucina»

di Francesca Angeleri

Vent’anni fa usciva «Io uccido», la moglie ricorda quei giorni

Vent’anni fa usciva un libro che ha segnato la letteratura italiana: Io uccido, di Giorgio Faletti. Con la moglie Roberta Bellesini vivevano ancora a Milano (prima di ritornare a stabilirsi ad Asti) e il 6 novembre del 2002, alle 18, era prevista la prima presentazione del romanzo in libreria, alla Mondadori di via Marghera. Quella presentazione non avvenne mai. Giorgio quel giorno ebbe un ictus molto grave, andò in coma e finì d’urgenza nella Stroke Unit del Niguarda dove rimase per molto tempo. Uscì, anche, per poi rientrarvi. Dovette farsi primavera perché fosse considerato fuori pericolo. È il destino. Cattivo e crudele. E poi insondabilmente grande, magnanimo. Fu un passa parola, un fiume in piena da lettore a lettore. Quel Natale, sotto l’albero, qualcuno si ritrovò una, due, anche tre copie di Io uccido. Giorgio Faletti era diventato uno scrittore da best seller.

Roberta Bellesini, come vuole ricordare quel momento?
«Sicuramente non da sola. Cucinando per i nostri amici più cari, quelli che hanno condiviso con Giorgio un bel pezzo di percorso sia lavorativo che affettivo».

Anche Faletti era un bravo cuoco, vero?
«Gli piaceva tantissimo. Era creativo anche in questo. Nei nostri viaggi prendeva sempre un sacco di spezie e le usava tutte. Da una ricetta banale ti tirava fuori un piatto speciale. Più di tutto amava cucinare il pesce».

Io uccido, cosa è stato nella sua e vostra vita?
«I ricordi sono ancora molto vivi. Nonostante siano passati questi venti anni. Successe che Giorgio aveva scritto dei racconti di genere, erano degli horror. Li fece leggere al suo amico giornalista Piero Degli Antoni che gli disse: “Fossi in te li proporrei a qualche editore”. E così fece».

E come andò?
«Andò da Baldini&Castoldi perché con loro aveva pubblicato il diario di Vito Catozzo. Gli dissero che era ben scritto ma che i racconti non avevano un mercato interessante. Gli suggerirono di scrivere un romanzo e in quel caso lo avrebbero preso seriamente in considerazione. Si buttò a capofitto e lo scrisse in pochissimi mesi. L’editore disse che se fosse riuscito a finirlo in tempi brevi avrebbero potuto farlo uscire per Natale. Giorgio era galvanizzato e si mise sotto per terminare in tempo utile. Ne vennero fuori 700 pagine. Mica un romanzetto. Quel titolo ce lo aveva in testa da tempo, e risultò perfetto».

Come fu la sua entrata nel mondo, sofisticato e spesso rigido, della letteratura?
«Cruciale fu la bellissima copertina su Sette scritta da Antonio D’Orrico. Quando un critico letterario della sua levatura scrive: “Voi non ci crederete ma questo è il più grande scrittore italiano vivente…”. Un giorno mi telefonò. Giorgio stava ancora male per l’ictus, mi chiese se poteva andare in ospedale e parlare con lui per una mezzora perché aveva letto il libro e voleva fargli un bell’articolo».

Quanti detrattori?
«Tanti. “Come fa un comico a diventare all’improvviso uno scrittore da thriller pazzesco?”. Alcuni dicevano che glieli scrivesse Deaver.».

È un libro che è entrato nella storia. Se lo aspettava?
«Lui non si sentiva un grande scrittore, diceva sempre di essere un narratore di genere. Era un appassionato di thriller americani, dei libri di Jeffery Deaver e Michael Connelly con cui poi era diventato anche molto amico. Innanzitutto credo si considerasse un lettore, aveva assorbito un certo tipo di scrittura che poi era scaturita in maniera naturale. Aveva la stessa attitudine per tutto».

Quale?
«Era un amante delle sfide. Attraversare diversi ambiti artistici gli dava quell’adrenalina che sempre lo faceva sentire un esordiente».

Infatti, lavorava spesso con i giovani.
«Si entusiasmava. Notte prima degli esami, per esempio, era l’opera prima di Brizzi come regista, gli sceneggiatori erano degli esordienti, il cast era giovanissimo. Per farlo rinunciò a un progetto che sulla carta era molto più significativo, eppure ci vide giusto. Infatti, oggi resta uno dei film ancora più visti e trasmessi. Non aveva timore di fare salti nel buio».

Cosa penserebbe Faletti di questi tempi?
«Sicuramente avrebbe messo il punto sulla perdita del contatto umano. Sulla superficialità dettata dall’avvento dei social».

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6 novembre 2022 (modifica il 6 novembre 2022 | 20:38)

© RIPRODUZIONE RISERVATA

, 2022-11-07 07:23:00,

di Francesca Angeleri

Vent’anni fa usciva «Io uccido», la moglie ricorda quei giorni

Vent’anni fa usciva un libro che ha segnato la letteratura italiana: Io uccido, di Giorgio Faletti. Con la moglie Roberta Bellesini vivevano ancora a Milano (prima di ritornare a stabilirsi ad Asti) e il 6 novembre del 2002, alle 18, era prevista la prima presentazione del romanzo in libreria, alla Mondadori di via Marghera. Quella presentazione non avvenne mai. Giorgio quel giorno ebbe un ictus molto grave, andò in coma e finì d’urgenza nella Stroke Unit del Niguarda dove rimase per molto tempo. Uscì, anche, per poi rientrarvi. Dovette farsi primavera perché fosse considerato fuori pericolo. È il destino. Cattivo e crudele. E poi insondabilmente grande, magnanimo. Fu un passa parola, un fiume in piena da lettore a lettore. Quel Natale, sotto l’albero, qualcuno si ritrovò una, due, anche tre copie di Io uccido. Giorgio Faletti era diventato uno scrittore da best seller.

Roberta Bellesini, come vuole ricordare quel momento?
«Sicuramente non da sola. Cucinando per i nostri amici più cari, quelli che hanno condiviso con Giorgio un bel pezzo di percorso sia lavorativo che affettivo».

Anche Faletti era un bravo cuoco, vero?
«Gli piaceva tantissimo. Era creativo anche in questo. Nei nostri viaggi prendeva sempre un sacco di spezie e le usava tutte. Da una ricetta banale ti tirava fuori un piatto speciale. Più di tutto amava cucinare il pesce».

Io uccido, cosa è stato nella sua e vostra vita?
«I ricordi sono ancora molto vivi. Nonostante siano passati questi venti anni. Successe che Giorgio aveva scritto dei racconti di genere, erano degli horror. Li fece leggere al suo amico giornalista Piero Degli Antoni che gli disse: “Fossi in te li proporrei a qualche editore”. E così fece».

E come andò?
«Andò da Baldini&Castoldi perché con loro aveva pubblicato il diario di Vito Catozzo. Gli dissero che era ben scritto ma che i racconti non avevano un mercato interessante. Gli suggerirono di scrivere un romanzo e in quel caso lo avrebbero preso seriamente in considerazione. Si buttò a capofitto e lo scrisse in pochissimi mesi. L’editore disse che se fosse riuscito a finirlo in tempi brevi avrebbero potuto farlo uscire per Natale. Giorgio era galvanizzato e si mise sotto per terminare in tempo utile. Ne vennero fuori 700 pagine. Mica un romanzetto. Quel titolo ce lo aveva in testa da tempo, e risultò perfetto».

Come fu la sua entrata nel mondo, sofisticato e spesso rigido, della letteratura?
«Cruciale fu la bellissima copertina su Sette scritta da Antonio D’Orrico. Quando un critico letterario della sua levatura scrive: “Voi non ci crederete ma questo è il più grande scrittore italiano vivente…”. Un giorno mi telefonò. Giorgio stava ancora male per l’ictus, mi chiese se poteva andare in ospedale e parlare con lui per una mezzora perché aveva letto il libro e voleva fargli un bell’articolo».

Quanti detrattori?
«Tanti. “Come fa un comico a diventare all’improvviso uno scrittore da thriller pazzesco?”. Alcuni dicevano che glieli scrivesse Deaver.».

È un libro che è entrato nella storia. Se lo aspettava?
«Lui non si sentiva un grande scrittore, diceva sempre di essere un narratore di genere. Era un appassionato di thriller americani, dei libri di Jeffery Deaver e Michael Connelly con cui poi era diventato anche molto amico. Innanzitutto credo si considerasse un lettore, aveva assorbito un certo tipo di scrittura che poi era scaturita in maniera naturale. Aveva la stessa attitudine per tutto».

Quale?
«Era un amante delle sfide. Attraversare diversi ambiti artistici gli dava quell’adrenalina che sempre lo faceva sentire un esordiente».

Infatti, lavorava spesso con i giovani.
«Si entusiasmava. Notte prima degli esami, per esempio, era l’opera prima di Brizzi come regista, gli sceneggiatori erano degli esordienti, il cast era giovanissimo. Per farlo rinunciò a un progetto che sulla carta era molto più significativo, eppure ci vide giusto. Infatti, oggi resta uno dei film ancora più visti e trasmessi. Non aveva timore di fare salti nel buio».

Cosa penserebbe Faletti di questi tempi?
«Sicuramente avrebbe messo il punto sulla perdita del contatto umano. Sulla superficialità dettata dall’avvento dei social».

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6 novembre 2022 (modifica il 6 novembre 2022 | 20:38)

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