di Agostino Gramigna
Le foto storiche del monte Epomeo del 1936, quando vennero realizzate le opere ingegneristiche dentro agli alvei delle cave. Il presidente locale del Cai, De Angelis, tra i più esperti della zona: «Ora sono piene di vegetazione, mentre più a valle si è costruito troppo»
«È crollata a’ muntagna» dissero gli abitanti di Sarno nel 1997 quando furono travolti dal fango. «É crollata a muntagna» s’è sentito dire a Ischia nel 2009. «È crollata a’ muntagna» hanno ripetuto in questi giorni, per l’ennesima volta, gli ischitani. La montagna in questione si chiama Epomeo. Alta 789 metri. Domina l’isola. Ma in Campania non è un fenomeno infrequente. Per un motivo o l’altro i monti crollano. Anche se in realtà non è proprio così. Quello che viene giù è l’acqua che accumulando terriccio e detriti vari si trasforma in fango. Il quale scende poi a valle ad una velocità tale da distruggere tutto quello che trova.
Giovannangelo De Angelis, tra i fondatori del Cai a Ischia, lo chiama «effetto valanga». Per capire la genesi di questi disastri, dice, bisogna salire sul monte Epomeo (e poi scendere). De Angelis ha fondato il Cai, con altre due persone, una decina di anni fa. Ogni anno porta sul monte migliaia di escursionisti, soci dell’associazione. Non c’è metro quadrato di terra che non abbia calpestato. Conosce la storia, la morfologia del territorio. Quando nel 2017 Casamicciola fu colpita dal terremoto, De Angelis andò in perlustrazione. Analizzò lo stato delle briglie e degli alvei.
«Abbiamo segnalato la problematica alla Regione e abbiamo fatto presente che sarebbe successo qualcosa, che la situazione era pessima». Per spiegare la catastrofe idrogeologica dei giorni scorsi parte da lontano. Il suo racconto inizia dall’alluvione del 1910 che provocò, anche allora, vittime e molti danni. «Dalle fotografie scattate negli anni 30 si vedono chiaramente le opere ingegneristiche costruite dentro gli alvei naturali. Erano dei canali fatti di pietra lavica, le cosiddette briglie, che avrebbero dovuto dirottare l’acqua in modo da non colpire le case e le persone». Per un po’ il sistema ha funzionato. «Ma se i canaloni, le briglie, si riempiono di foglie e di alberi viene meno quella funzione di drenaggio. Si formano così piscine di fango e di terriccio che con l’eccesso di peso dovuto alle piogge ad un certo punto crollano e innescano la frana. È lo stesso principio della valanga».
Il fango inizia a scendere. Il percorso è sempre lo stesso, levigato dalla natura. Questo spiega perché siano sempre certe zone ad essere colpite. Casamicciola, che si trova sotto le cime del monte Epomeo, è stata devastata dalla colata di fango anche il 10 novembre nel 2009. Dal 1910, racconta De Angelis, allora come oggi, il problema non è cambiato: occorre evitare che il fango prenda velocità, che dalle piogge s’inmeschi il processo naturale che crea l’effeto valanga. «Ma la storia di questa terra è legata anche alla toponomastica — continua De Angelis —. I nomi rispecchiano le peculiarità del territorio. Non a caso l’area appena sopra Casamicciola è chiamata la zona del “pantano”». Un tempo queste erano terre coltivate. «C’erano i terrazzamenti. Fino agli anni Sessanta l’economia dell’isola era basata principalmente sull’agricoltura. La terra produceva vigne e piantagioni di castagni. I terrazzamenti, i muri a secco, detti «parracine, giocavano un’importante funzione: rallentavano il corso delle acqua. E attorno ai castagni i contadini scavavano fosse per contenere la pioggia».
Uno studio dell’Università di Padova, realizzato assieme al Cai, ha certificato che a Ischia ci sono più di 2 mila chilometri di muri a secco. Ma che la maggior parte di questi, cira il 70 per cento, sono stati abbandonati. Dove c’erano i terrazzamenti è rinata la vegetazione mentre in alcuni punti, più a valle, sono sorte le abitazioni (come a Casamicciola). Con l’effetto paradossale, dice De angelis «che proprio quelle costruzioni hanno fatto da tappo, hanno svolto la funzione che avevano i terrazzamenti: hanno cioé rallentato la velocità del fango. Senza quelle case, l’effetto alluvione dei giorni scorsi si sarebbe come moltiplicato, e probabilmente avrebbe provocato danni maggiori».
Da Angelis ci sale spesso. Il monte Empeo sovrasta l’isola. Non è un vulcano come qualcuno ha scritto o detto a voce in questi giorni. «È stato formato dalla spinta del magma, ma non è un vulcano». I vulcani lo circondano. La vegetazione attorno è fatta di lecci e castagni. In media nevica due volte all’anno. Nelle aree appena pianeggianti un tempo c’erano le «neviere», buche scavate per raccogliere la neve che serviva in primavera alla conservazione dei prodotti. Perché non si fa la manutenzione degli alvei e delle briglie? De Angelis risponde come se fosse la cosa più semplice del mondo da capire. «Perché quella è diventata una zona che non interessa più. Il turismo ha soppiantato l’agricoltura. La cura deli alvei in alto sono antieconomici. La manutenzione è un costo, non solo in termini di denaro. Si tratta di zone impervie dove servirebbe un lavoro di forza fisica. Che nessuno ha più voglia di fare».
28 novembre 2022 (modifica il 28 novembre 2022 | 19:32)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
, 2022-11-28 18:32:00, Le foto storiche del monte Epomeo del 1936, quando vennero realizzate le opere ingegneristiche dentro agli alvei delle cave. Il presidente locale del Cai, De Angelis, tra i più esperti della zona: «Ora sono piene di vegetazione, mentre più a valle si è costruito troppo» , Agostino Gramigna