Karkhiv, viaggio all’inferno «Mai più sotto la tirannia della Russia»

di Lorenzo Cremonesi, inviato a Kharkiv

Nella seconda città ucraina continuano i bombardamenti Il sindaco Igor Terekhov: «Noi siamo europei. Mi inchino al coraggio di chi rimane qui e continuo a lavorare per loro»

I boati delle esplosioni continuano, anche ieri sera per tutto il tempo in cui abbiamo scritto questo articolo il terreno e i vetri delle finestre tremavano. Non c’è stata pietà nei bombardamenti russi e nell’accanimento con cui hanno devastato Kharkiv, la seconda città dell’Ucraina per oltre un mese. Non le periferie, non i casermoni decadenti del periodo sovietico e i villaggi attorno come avvenuto a Kiev ma proprio il centro storico, contro i palazzi dell’epoca zarista e anche contro i centri commerciali tutti vetro e acciaio che erano diventati una spina nel fianco delle aspirazioni di Putin di renderli vassalli «questi ucraini troppo occidentalizzati», che lui considera russi a tutti gli effetti. Arrivando in treno nel buio dell’oscuramento totale del lungo viaggio da Kiev, per un attimo può sembrare che il piazzalone assolato difronte alla stazione ferroviaria e il traffico di auto tutto attorno trasmettano l’illusione che forse descrizioni delle devastazioni siano state esagerate. «Ai negoziati di Istanbul per la prima volta si parla concretamente di pace, ecco forse il motivo per cui negli ultimi tre giorni ci sono meno allarmi di prima e i chioschi nei parchi hanno ripreso a vendere il caffè», dice Dimitri, il dipendente della Municipalità che si è preso un giorno di ferie per farmi da guida.

«Volevano annientarci»

È però l’avviso di un volontario della Difesa civile appena sceso dal treno che una volta conduceva a Mariupol, ma adesso si ferma molto prima, a mettere in allarme: «Qui i cannoni dell’Aviazione di Putin sono stati estremamente cattivi, volevano annientarci in tutti i modi. L’abbiamo capito sin da fine febbraio, quando hanno ridotto in briciole i capannoni delle nostre celebri fabbriche di trattori KhTZ come se volessero far rinascere quelle dei Tank T-34 con cui Stalin aveva vinto la guerra». La prima tappa conduce inevitabilmente nell’immensa Piazza della Libertà, dove i palazzi della Municipalità e dell’Opera, colpiti proprio sui tetti dai missili e poi bruciati piano dopo piano sino al selciato dei sanpietrini di granito rossastro, rappresentano adesso prove indelebili della brutalità insensata dell’aggressione.

Missili sulla testa

«Erano appena trascorse le otto quel primo marzo mattina che ricorderò tutta la vita. Avevo controllato l’orologio perché ero in ritardo al mio turno di guardia giurata in Piazza, quando poche decine di metri sulla testa mi sono passati i due missili russi. Non erano aerei, ormai so distinguerli bene. Il primo si è infilato nel tetto del Municipio con un fragore assordante. L’incendio è iniziato subito, sono accorso e ho visto decine e decine di morti e feriti. Alcuni erano irriconoscibili», racconta Slavic, 26 anni, che da allora ha perso il lavoro e adesso dorme assieme ad altre 200 persone nella stazione della metropolitana affacciata sulla Piazza. Il racconto della lotta di resistenza lo fa invece il 44enne Sidoi (il suo nome di battaglia che significa «capelli grigi»), responsabile locale per la Difesa della milizie territoriali. «Sappiamo bene ormai che Putin voleva catturare subito Kiev per eliminare Zelensky ma in contemporanea la sua strategia iniziale si era concentrata anche su Kharkiv ci troviamo a meno di quaranta chilometri dal confine con la Russia. Poteva bombardarci duro, distruggere le infrastrutture, contava sul fatto che la nostra città è sempre stata culturalmente ed economicamente legata alla Russia per raccogliere consensi. Ma ci aveva sottovalutati, aveva fatto i conti senza l’oste, perché anche i russi più legati a Mosca dopo l’attacco sono diventati ucraini in poche ore. Così, quando abbiamo reagito lui ha dato l’ok alla rappresaglia più punitiva possibile». Le conseguenze le spiega il sindaco, Igor Terekhov, che parla di centinaia di morti (il numero preciso è top secret) e di ben 1.450 palazzi (di cui 1.200 con più di nove piani) finiti in macerie, oltre a 69 scuole, 53 asili, 15 ospedali colpiti, e aggiunge che il 30 per cento del milione e mezzo di abitanti è sfollato. «Mi inchino al coraggio di chi rimane. Per loro continuo a servire i servizi pubblici. Noi siamo europei, Putin deve sapere che non torneremo sotto la tirannia; ha persino provato a colpirci da lontano con i missili sparati dalle navi delle flotte del Mar Nero», ci dice nel suo ufficio trasferito in una zona segreta della città.

Le carte dell’avanzata

Sedoi e i quadri militari locali mostrano sulla mappe geografiche le direttive dell’avanzata russa, che già il 28 febbraio dai villaggi di Lyptsy e Cherkasky Tyshsky raggiungevano l’aria urbana della metropoli ed entravano nel quartiere popolare di Pitikakty. Vengono fermati dalla guerriglia urbana e i missili anticarro appena arrivati dai britannici e dagli americani aiutano a sbaragliare le colonne dei blindati. La reazione russa non si fa attendere: i missili a lunga gittata trasformano in macerie e vetri infranti via Sumska, che era il centro dello shopping, con i caffè e i negozi di moda. Bruciano i centri commerciali e cade a pezzi l’imponente edificio dell’Università. Le bombe hanno persino danneggiato il sistema d’allarme e le sue sirene, così adesso la cittadinanza viene invitata a scaricare un’apposita app che gestisce gli allarmi via remoto. Ma a metà marzo la battaglia diventa di posizione, la resistenza ha ricacciato indietro i russi di una ventina di chilometri, il tentativo di accerchiamento ha fallito e Putin replica a colpi di missili e raid aerei. Come quello di ieri pomeriggio, che ci ha visti correre in una delle stazione del metrò insieme a tanti altri, mentre il rombo di un jet a bassa quota fendeva il cielo dopo il palazzo bruciato della Municipalità.

29 marzo 2022 (modifica il 30 marzo 2022 | 00:04)

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, 2022-03-29 22:22:00, Nella seconda città ucraina continuano i bombardamenti Il sindaco Igor Terekhov: «Noi siamo europei. Mi inchino al coraggio di chi rimane qui e continuo a lavorare per loro», Lorenzo Cremonesi, inviato a Kharkiv

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