La Cina che non fa da mediatore spinge l’Europa verso gli Usa

di Federico Rampini

Mosca e Pechino, superpotenze «revisioniste», vogliono rivedere l’ordine mondiale disegnato – prevalentemente – dall’Occidente sotto la leadership americana

«É finito il mondo dominato dagli Stati Uniti». Questo proclama lanciato da Vladimir Putin al forum economico di San Pietroburgo ha molti sostenitori in Italia e anche in altri paesi europei. Ma sono proprio le parole e le azioni di Putin, insieme alle scelte di Xi Jinping, a ridurre lo spazio reale per delle politiche autonomiste e antiamericane.
Cina e Russia così vicine fra loro, così minacciose (vedi la terza portaerei cinese inaugurata in piena guerra ucraina e quel che significa per Taiwan), così esplicite nei loro propositi revisionisti, spingono inevitabilmente i governi europei ad allinearsi con Washington. É sfumata di nuovo l’illusione che la Cina volesse ritagliarsi un ruolo di mediazione per un cessate il fuoco in Ucraina. Nel giro di pochi giorni c’è stata una telefonata affettuosa di Putin per il compleanno di Xi, poi l’intervento in videoconferenza del presidente cinese al forum di San Pietroburgo. In nessuna circostanza la Cina si è discostata dalla sua solidarietà con la Russia né ha accennato a voler mediare per una soluzione del conflitto.

Cina-Russia, le due superpotenze revisioniste

L’intesa rimane solida perché Cina e Russia sono unite da una caratteristica comune: sono due superpotenze «revisioniste», nel senso in cui questo termine viene usato dagli studiosi di geopolitica. Vogliono cioè rivedere l’ordine mondiale disegnato – prevalentemente – dall’Occidente sotto la leadership americana, per sostituirlo con un nuovo ordine progettato su misura per i loro interessi imperiali.
Cina e Russia sono, tra l’altro, i due ultimi imperi coloniali della storia, dominando vasti territori che appartengono ad altre etnìe soggiogate. Questo progetto revisionista lascia poca scelta all’Europa. La logica dei rapporti di forze si unisce alla logica degli interessi e dei valori. Per conquistarsi degli spazi di manovra più ampi, per essere una «quarta forza» con una strategia distinta rispetto a Usa, Cina, Russia, l’Unione europea dovrebbe fare degli sforzi di riarmo e di unione politica che non sono concepibili oggi né in un futuro prossimo. Di conseguenza non ha alternative, deve rafforzare la solidarietà atlantica. Benché delle fasce di opinione pubblica desiderino la stessa cosa di Putin, cioè «la fine del mondo dominato dagli Stati Uniti», i governanti europei sanno due cose: primo, che da tempo il mondo è multipolare e l influenza americana ha già subito un costante ridimensionamento; secondo, che il ruolo dei poli alternativi come Pechino e Mosca sta diventando sempre più ostile e bellicoso.

E l’Europa?

Il Vecchio Continente si è condannato da solo, con le sue azioni concrete per esempio sul terreno della difesa, ad essere la periferia di un impero; deve solo scegliere se vuole staccarsi da quello americano per diventare periferia della Russia o della Cina. Formulata in questi termini – ed è solo così che hanno un senso le parole e le azioni di Putin e Xi – la scelta antioccidentale verrebbe ripudiata dalla maggioranza degli europei, così come la respingono gli ucraini o i finlandesi e gli svedesi. É in questo scenario che gli americani valutano la visita dei leader europei a Kiev. I media italiani hanno pressoché ignorato la presenza in quella visita a Kiev di un quarto leader, il romeno Klaus Iohannis. Lo sgarbo che noi facciamo alla Romania ci viene restituito da molti media americani che hanno concentrato tutta l’attenzione su Emmanuel Macron e Olaf Scholz senza approfondire il ruolo di Mario Draghi.
Come si spiega questo atteggiamento? Intanto perché sono Macron e Scholz ad aver cambiato posizione: prima erano contrari o scettici sulla candidatura dell’Ucraina all’Unione europea. Ma che cosa gli ha fatto cambiare posizione? Le principali analisi americane si sono concentrate su due fattori. In primo luogo le dure accuse di Zelensky alla Germania e alla Francia per le loro ambiguità. In secondo luogo la politica interna tedesca: gli alleati di governo, Verdi e liberali, accusano Scholz di fare troppo poco per l’Ucraina, gli rimproverano le stesse tendenze filo-russe che segnarono i predecssori Gerhard Schroeder e Angela Merkel.
Questo non esclude né smentisce la spiegazione italiana, sul ruolo che Mario Draghi ha esercitato per convincere i suoi «compagni di viaggio». Non c’è nessun elemento per contestare questa versione dei fatti. Resta emblematico che non abbia avuto spazio nelle cronache americane degli eventi, più focalizzate sul peso di Zelensky o dei Verdi tedeschi.
Draghi continua a godere della massima stima della Casa Bianca e di tutta la squadra di Joe Biden , dal segretario di Stato alla segretaria al Tesoro: ai loro occhi è il presidente del Consiglio ideale per l’Italia, l’uomo giusto al posto giusto nel momento giusto. Sull’influenza dell’Italia in Europa, vista dai media americani, pesa il fatto che nelle turbolenze economiche il Paese torna a essere tra quelli più in difficoltà, il rialzo dei tassi riporta l’attenzione sul nostro debito pubblico. La maggior parte dei titoli dedicati all’Italia dalla stampa Usa in queste ultime 48 ore riguardano lo «scudo» della Bce.
Agli occhi di molti osservatori americani, una nazione che all’Europa deve chiedere aiuto non è nella posizione ideale per esercitare leadership alla pari con Germania e Francia.

17 giugno 2022 (modifica il 17 giugno 2022 | 23:03)

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