di Paolo Mereghetti
«Hope», dramma norvegese di Maria Sødahl, evita ogni tipo di ricatto sentimentale o morale. Costringendo lo spettatore a fare i conti con le sue paure e i suoi rimossi
Dimenticate i lacrima movie che troppe volte hanno solo cercato di ricattare lo spettatore rovesciando loro addosso tutti i possibili sensi di colpa per non essere nella posizione di chi stava sullo schermo: loro alle prese con un dramma senza soluzione (l’inevitabile condanna per una malattia inguaribile) e noi, il pubblico, compiaciuti del nostro privilegio di osservatori distanti, persino pronti a giudicare se qualcuno commetteva qualche passo falso.
No, Hope (Speranza, ma anche qui: perché un titolo inglese? Ah, eterno cascame del provincialismo nostrano…) il film della regista norvegese Maria Sødahl — classe 1965, le cui opere precedenti non sono mai arrivate in Italia — è qualcosa di completamente diverso, anche se il punto di partenza è quello di tanti melodrammi innescati dalla scoperta di una malattia che sembra non lasciare scampo. E lo è per la qualità della recitazione ma anche per la delicatezza e insieme la verità del suo sguardo, per la complessità dei problemi sollevati e soprattutto per la totale mancanza di ogni tipo di ricatto sentimentale o morale.
Appena tornata da un lavoro all’estero (è regista teatrale), Anja (Andrea Bræin Hovig) decide di farsi visitare per un insistente problema alla vista e la risonanza dà un responso terribile: metastasi al cervello, forse conseguenza del tumore ai polmoni che pensava di aver sconfitto l’anno precedente. A complicare ancor più le cose, se mai fosse possibile, questa scoperta avviene l’antivigilia di Natale, quando anche il padre (Einar Økland) l’ha raggiunta per far festa insieme ma soprattutto gli ospedali lavorano a ritmo ridotto. E già qui, iniziamo a fare i conti con una realtà che si incarica di moltiplicare i problemi invece di risolverli.
Anja vive da una trentina d’anni con Tomas (Stellan Skarsgård), produttore non si capisce bene se di cinema o di altro tipo di spettacoli: insieme hanno fatto tre figli che si sono aggiunti ai tre del precedente matrimonio dell’uomo e che aspettano tutti insieme di organizzare la festa. Con una sorprendente capacità di tenersi emotivamente lontano dalle possibili scivolate melodrammatiche, l’occhio della macchina da presa registra (grazie naturalmente a una sceneggiatura della stessa Sødahl, calibrata fin nei minimi particolari) tutto quello che si trova davvero ad affrontare la donna, dai dolori che ogni tanto l’assalgono all’insonnia, dalla stanchezza che la prende all’improvviso allo scoramento. Ma anche i suoi sforzi per non far trapelare niente ai figli (cui pure vorrebbe parlare) e non rovinar loro l’aria di festa. Usando poi il silenzio per far emergere piano piano i nodi che Anja e Tomas hanno più o meno volontariamente nascosto o represso e che di fronte a una così grande tragedia improvvisamente riemergono.
Anche per merito di una recitazione sempre trattenuta e magistralmente realistica, lo spettatore è portato dentro una vita che non conosce ma di cui intuisce i possibili snodi, fatti di incomprensioni mai affrontate, di dubbi mai risolti, di equivoci accantonati. «Siamo felici quando meritiamo di esserlo» dice Anja e il luogo comune diventa immediatamente una chiave per capire di più e magari guardare anche un po’ dentro a noi stessi. Mentre i due devono fare i conti con l’efficienza ma anche la freddezza burocratica dell’organizzazione ospedaliera, con la paura ma insieme il bisogno di spiegare cosa sta succedendo ai figli, con il cinismo di chi pensa di poter dispensare consigli di vita e l’umanità di chi cerca di tenere in vita una fiammella di speranza.
Scandito dal passare dei giorni (il film inizia il 23 dicembre e prosegue fino al 2 gennaio, quando vediamo Anja affrontare un’operazione di cui naturalmente non si può sapere l’esito), con più di un colpo di scena che non vogliamo svelare, Hope ci prende per mano e ci costringe a fare i conti con le nostre paure e i nostri rimossi, mentre la malattia della protagonista diventa una specie di indistinta metafora di quello che la vita può metterci di fronte. E alla fine no, non ci dimenticheremo tanto facilmente di Hope e della sua Anja.
8 maggio 2022 (modifica il 8 maggio 2022 | 21:47)
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, 2022-05-08 19:47:00, «Hope», dramma norvegese di Maria Sødahl, evita ogni tipo di ricatto sentimentale o morale. Costringendo lo spettatore a fare i conti con le sue paure e i suoi rimossi,