di Roberto Gressi
Domenica 12 giugno più di nove milioni gli italiani chiamati al voto, quasi mille i comuni coinvolti di cui ventisei i capoluoghi. Si scelgono i sindaci, ma i leader si sfidano anche in vista del confronto finale
C’è una gran voglia di menare le mani, politicamente parlando. Si scrive voto amministrativo, si legge prova generale di un percorso a ostacoli che porterà tra meno di un anno alle elezioni politiche. Domenica 12 giugno più di nove milioni gli italiani chiamati al voto, quasi mille i comuni coinvolti di cui ventisei i capoluoghi. Si scelgono i sindaci, ma i leader si sfidano anche in vista del confronto finale.
I voti veri da pesare (e da far pesare) nell’assalto al Nord
La lunga marcia di Giorgia Meloni, partita come Cenerentola del centrodestra dopo le politiche del 2018, è a un passo dalla prima tappa. Non è più tempo di sondaggi, ma di voti veri, che si contano e si pesano. Oltre nove milioni di italiani al voto, quasi mille comuni, di cui ventisei capoluoghi. Più di un test per la leader indiscussa di Fratelli d’Italia, l’unica al momento accreditata di poter aumentare il numero di deputati e senatori alle prossime politiche nel maggio del 2023, nonostante il taglio dei parlamentari. Primo bersaglio, l’assalto alle roccheforti leghiste del Nord, con l’obiettivo dichiarato di sorpassare in casa sua l’amico Matteo Salvini, con il quale un giorno si scambia rasoiate e l’altro si acconcia a subirne gli abbracci. Donna da una missione sola, andare al governo con il centrodestra, costringendolo ad arrendersi all’evidenza che è lei quella con più voti, e quindi futuro premier. Tanto più se dovesse spuntarla anche sul filo di lana contro il Pd di Enrico Letta, portando FdI sul tetto d’Italia. Tutto perfettamente lineare, anche se sa un po’ troppo di addizioni.
La sfida difficile e i tanti fronti aperti. Più il referendum
Un giorno si candida a portare la pace nel mondo incontrando Putin, l’altro convoca un gabinetto di guerra per difendere il lavoro e il risparmio degli italiani dall’attacco di Unione europea e Banca centrale. Matteo Salvini attraversa il momento più difficile della sua carriera politica ed è alla disperata ricerca del sacro graal che gli restituisca il tocco magico, smarrito chissà dove, quando sembrava che tutto quello che toccasse si trasformava in voti. I cavalli di battaglia del passato sembrano usurati, Giancarlo Giorgetti e Luca Zaia gli tengono la briglia corta, i sondaggi gli rosicchiano consensi ogni settimana e l’idea, che pareva l’uovo di Colombo, di un’Opa su Forza Italia per sommare i consensi e scavalcare Giorgia Meloni, mostra già segni di affaticamento. Anche la battaglia per i referendum sulla giustizia non pare avergli fatto da traino in vista delle amministrative di domani. Scottato dal Papeete non sembra in grado al momento di progettare strappi contro il governo. Ma anche la sua fedeltà al centrodestra non pare blindata.
Il gioco di equilibri con i moderati d’area e i rissosi coinquilini
L’autunno di Forza Italia affida comunque al partito di Silvio Berlusconi, almeno nei sondaggi, una percentuale più che dignitosa alle politiche e lo porta ad affrontare con qualche speranza questa tornata amministrativa. Certo, in vista delle elezioni per la prossima legislatura, il taglio dei parlamentari e la diminuzione dei consensi porta a previsioni nefaste sul numero di deputati e senatori che riuscirà a riconfermare. Ma i rapporti con l’Europa e con l’alleato di oltreoceano gli danno titolo per essere quasi insostituibile per il centrodestra. E in più può giocare un ruolo importante di cuscinetto, rispetto agli altri due rissosi coinquilini, soprattutto adesso quando pare che l’abbraccio a doppio taglio di Matteo Salvini tende ad allentarsi. I centristi d’area, almeno per il momento, credono in Berlusconi più che in un onirico terzo polo e oltretutto potrebbe avere un ruolo qualora nessuno degli schieramenti dovesse prevalere in maniera chiara. Il fondatore ha però bisogno di un partito meno concentrato sugli interessi personali.
La prova decisiva per poter costruire il campo largo
Inutile nasconderlo, la possibilità di svegliarsi lunedì con la medaglia di primo partito solletica le aspettative della vigilia di Enrico Letta. Ma il segretario del Pd vede questa tornata amministrativa soprattutto come l’occasione per convincere prima di tutto il suo partito che è giusto abbandonare l’illusione dell’autosufficienza. E che bisogna imbarcarsi senza tentennamenti nella costruzione di un campo largo, alleato anche con i Cinque Stelle, che possa puntare a sconfiggere alle amministrative la corrazzata avversaria. Con Giuseppe Conte i rapporti continuano ad essere saldi e c’è la convinzione che anche il confronto in Parlamento sulle armi all’Ucraina non costituirà un elemento di rottura. La possibilità di cambiare in senso proporzionale la legge elettorale diventa più fragile ogni giorno che passa, fino a incrinare la tentazione delle mani libere che pure anima aree del partito. Nei comuni Letta ha anche come alleato il doppio turno, che può consentirgli di sfruttare le divisioni del centrodestra.
La doppia strategia. Il rischio maggiore è l’assalto interno
Molti si chiedono chi glielo abbia fatto fare, a Giuseppe Conte, di misurarsi senza rete in questa consultazione amministrativa, con il rischio di portare anzitempo allo scoperto la caduta di consensi del Movimento, che fatica per giunta a riconoscergli la leadership. Ma chi ha paura non va alla guerra e lui ha chiaro che non può esserci resurrezione se si scappa davanti alle prove più dure. E quindi va avanti, differenziandosi il più possibile dal Pd perché nessuno voterebbe per un partito satellite, ma anche tenendo la barra dell’alleanza con i dem, indispensabile per affrontare il voto delle politiche con questa legge elettorale che, al momento, appare assai difficile da cambiare. Fa però i conti con i suoi, che ribollono, divisi tra l’idea di fare squadra e il si salvi chi può e con un Luigi Di Maio che non ha mai capito che cosa avrebbe più di lui questo Giuseppe Conte. A seconda del risultato che otterrà rischia di dover affrontare l’ennesimo assalto al quartier generale, senza essere sicuro di un appoggio incondizionato di un sibillino Beppe Grillo.
Mosse senza vincoli e segnali spregiudicati per occupare il centro
Carlo Calenda vive questa tornata di voto amministrativo come una sorta di allenamento in vista delle elezioni politiche. Si muove con leggerezza qui appoggiando un candidato, lì promuovendone uno suo, di là ancora lanciando segnali spregiudicati, come l’ammiccamento a Letizia Moratti in vista delle regionali in Lombardia. E ha risolto il dilemma sulla nascita di una formazione centrista: il centro è lui, insieme a +Europa e a un proliferare di liste civiche. La buona prova come candidato sindaco di Roma gli dice che una base di voti ce l’ha. Obiettivo dichiarato disarticolare i poli, condannare i Cinque stelle all’oblio e convincere Mario Draghi a continuare a risanare il Paese. Partita chiusa con Matteo Renzi, che gira l’Italia per presentare il suo libro, sostiene un po’ il centrodestra e un po’ la sinistra, soprattutto crede che partire già adesso con la volata sia fiato sprecato. Alle politiche tanti dubitano che saprà raccogliere molti voti. Sul dopo voto invece pochi dubitano che saprà raccogliere un discreto numero di parlamentari.
10 giugno 2022 (modifica il 10 giugno 2022 | 21:38)
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, 2022-06-10 20:00:00, Domenica 12 giugno più di nove milioni gli italiani chiamati al voto, quasi mille i comuni coinvolti di cui ventisei i capoluoghi. Si scelgono i sindaci, ma i leader si sfidano anche in vista del confronto finale, Roberto Gressi