Il disegno di legge sulla riforma della “filiera tecnologico-professionale” targata Valditara parte con alcune novità, molte incognite e in linea di continuità con le scelte di tutti i Ministri dei Governi che si sono succeduti da oltre 20 anni.
“Oggi l’istruzione tecnica e professionale diventa finalmente un canale di serie A, in grado di garantire agli studenti una formazione che valorizzi i talenti e le potenzialità di ognuno e sia spendibile nel mondo del lavoro, garantendo competitività al nostro sistema produttivo” annuncia il ministro Valditara nel comunicato stampa post Consiglio dei ministri del 18/9/2023. Ma quante volte abbiamo sentito annunci dello stesso tenore? La stessa dichiarazione potrebbe essere riferita a ciascuno dei 14 ministri che si sono avvicendati negli ultimi 25 anni. Qualcuno si ricorda di Fioroni, Gelmini, Profumo, Giannini, per finire con Bianchi del governo Draghi?
Elementi di continuità con i precedenti governi
I governi che si sono succeduti da inizio 2000 ad oggi, di qualsiasi colore politico, hanno affrontato la questione dell’istruzione tecnica e professionale inseguendo lo stesso obiettivo, più o meno con le stesse misure: “raccordare” i sistemi in senso orizzontale (statale e regionale) e verticale (livello secondario e terziario), sviluppare competenze, coordinarsi col mondo produttivo, potenziare il “saper fare”, l’apprendimento “on the job”, la didattica “laboratoriale”, la modularità e la flessibilità dei percorsi.
Ogni anno Unioncamere e Confindustria hanno pubblicato dati, studi e analisi sul mismatch tra le competenze in uscita degli studenti e quelle richieste dal mercato del lavoro, sulle professionalità che non si trovano, sulla necessità di rinnovare la scuola e la didattica.
La stessa idea del “campus” non è nuova, ma molto affine a quella dei poli tecnico-professionali, su cui si è molto lavorato in passato, allo scopo di realizzare aggregazioni multisettoriali e multifunzionali, ottimizzare spazi e risorse, favorire una formazione agile e flessibile. Idem per la “struttura tecnica”, una specie di cabina di regia che dovrà promuovere la riforma prevista dall’attuale disegno di legge e beneficerà di uno specifico finanziamento. All’attuazione delle altre ambiziose disposizioni invece “si provvede nell’ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente” (e anche questo l’abbiamo già letto in calce a tante riforme epocali).
La vera novità dell’attuale disegno di legge
L’aspetto certamente più innovativo è la riformulazione del percorso in 4 anni a livello secondario + 2 a livello terziario, con la sperimentazione che partirà dal 2024/25 e potrà coinvolgere il 30% degli istituti tecnici e professionali.
La riduzione dei percorsi del II ciclo da 5 a 4 anni e la possibilità di accesso diretto ai 2 anni successivi negli ITS Academy e negli IFTS anche da parte degli studenti in uscita dai percorsi di istruzione e formazione professionale (IeFP) può certamente aumentare l’attrattività della filiera e quindi la scelta da parte di quell’utenza orientata all’inserimento rapido nel lavoro con un bagaglio di competenze immediatamente spendibili. Per capire che l’offerta attuale non funziona, basta guadare all’inarrestabile calo degli iscritti negli istituti professionali (quasi il 23% prima delle riforme, il 12% oggi).
Teoricamente, anche l’organizzazione strutturale della filiera in campus può andare incontro a questo tipo di domanda, facilitando i passaggi e ottimizzando le risorse.
Basta leggere il disegno di legge per capire che l’iter della riforma sarà lungo e difficile. Sullo sviluppo del progetto giocano infatti una pluralità di fattori e un iter complicato dalla necessità di un continuo confronto fra Stato e Regioni che hanno competenza i materia (non è un caso che nessuno dei ministri precedenti sia riuscito a completare l’opera avviata). Serve un tempo abbastanza lungo e un lavoro intenso. E bisognerà mettere in conto anche la contrarietà di quegli ambienti da sempre ostili a un modello di scuola che insegue le necessità dell’industria. “No il lavoro al posto dell’istruzione” è uno slogan che ha sempre fatto presa anche negli anni passati.
Per fare qualche esempio, la riforma prevede che si possano stipulare accordi, istituire reti, adeguare e integrare l’offerta formativa, facilitare i passaggi fra percorsi diversi, innovare la didattica, anche ricorrendo a contratti di prestazione d’opera per attività d’insegnamento con soggetti del mondo del lavoro e utilizzando in rete tutte le risorse professionali, logistiche e strumentali disponibili.
Altra incognita riguarda la riduzione di un anno dei percorsi di istruzione secondaria di II grado “assicurando agli studenti il conseguimento delle competenze di cui al Profilo educativo, culturale e professionale dei percorsi di istruzione secondaria di secondo grado”. Ma come si farà a concentrare in 4 anni il conseguimento di obiettivi che, come certificato dall’Invalsi, non si ottengono in 5? E il calo degli apprendimenti come si recupera?
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